Agorà

Il caso. E a Natale l’800 portò i regali

Daniele Zappalà venerdì 7 novembre 2014
«Dall’Ottocento in poi, la solennità religiosa di Natale è vista sempre più nelle famiglie cittadine della borghesia europea come una grande occasione per ritrovarsi insieme. Al centro della famiglia, vi sono i bambini, a cui si dimostra affetto attraverso dei regali. Si tratta di una sorta di offerta ai membri della famiglia e dunque di una vera e propria celebrazione di quest’ultima». A questa svolta storica silenziosa e ai suoi sviluppi contemporanei, la ricercatrice francese Martyne Perrot ha dedicato un saggio breve e gustoso appena tradotto dalle Edizioni Dehoniane di Bologna: Il regalo di Natale. Storia di un’invenzione (pagine 168, euro 13,50).Come s’innesta la cultura ottocentesca del regalo natalizio nella tradizione che fa riferimento alla narrazione evangelica dei Re Magi? «Vi è evidentemente un forte legame simbolico fra Gesù Bambino al quale i Re Magi portano dei regali e il bambino dell’Ottocento che diventa, anche con qualche sfumatura umoristica, una sorta di divin bambino all’interno delle famiglie agiate. In effetti, all’epoca, il bambino è sempre più spesso visto dai genitori come un essere innocente e una fonte d’avvenire. Proprio per questo, si può parlare di un’offerta di regali, più che di uno scambio. In modo generalmente inconscio, è come se si ripetessero nel nido familiare i gesti dei Re Magi».Sono sentimenti dei quali si è accorto ben presto anche il mondo del commercio…«Certo, soprattutto i grandi magazzini, che amplificheranno a loro modo il fenomeno. Al contempo, l’Ottocento è pure il secolo in cui diventa visibile lo sfruttamento infantile nell’industria. E grazie a tante iniziative caritative, una parte dei regali di Natale viene destinata a questi bambini, in modo che almeno per qualche giorno all’anno non si sentano esclusi. In questo caso, la tradizione religiosa trova una forma di prolungamento civile e urbano».Lei si sofferma sul Natale nelle capitali europee come Londra e Parigi. Si può dire che, attorno ai regali, ciascuna finisce per inventare un proprio stile? «A metà Ottocento, nella scia di New York, Londra inventa un proprio stile natalizio, interpretato e alimentato dalle storie di autori popolarissimi come Charles Dickens. Sarà così anche per Parigi, anche se la vera differenza non è quella fra grandi città, ma fra le maggiori aree metropolitane e le aree rurali, che resteranno ancora a lungo a margine di quest’effervescenza natalizia sempre più commerciale tipicamente urbana. Nelle campagne, si conserveranno tradizioni e riti molto più antichi in cui lo spirito di Natale salda in genere elementi sacri e naturali. Basti pensare al ceppo, nel caminetto o all’aperto, alimentati per tutta la notte. In proposito, è interessante osservare una certa ripresa odierna, nelle campagne, di tradizioni natalizie che sembravano estinte». Dickens è il grande autore che ha contribuito di più allo spirito natalizio?«Ha soprattutto reinterpretato dei valori cristiani come la carità e la condivisione, fissando lo spirito del Natale in una chiave anche molto sociale. Al tema, dedicò pure cicli di conferenze di grande successo e tanti interventi sui giornali. L’altro autore decisivo, a mio avviso, resta il tedesco E.T.A. Hoffmann, maggiormente concentrato sulle atmosfere domestiche, il decoro e gli oggetti di Natale».La dimensione commerciale dei doni di Natale subisce critiche fin dalla sua apparizione. La nostalgia di una certa purezza fa anch’essa parte dello spirito natalizio? «Questi avvertimenti trovano formulazioni e interpretazioni sempre nuove, religiose o meno. Oggi, il bisogno di richiamarsi all’autenticità e al senso vero del Natale è alimentato pure da un’impressione diffusa di saturazione. Ma al contempo, in chiave antropologica, è lecito pensare che l’eccesso commerciale dei regali di Natale risponda in parte pure a un bisogno di spreco cerimoniale con radici ancestrali. L’eccesso di regali, di spesa, di distruzione di ricchezza ricorda in effetti molto i fenomeni cerimoniali arcaici studiati da sociologi o antropologi come Mauss e Lévi-Strauss».Fra i personaggi dispensatori di regali, Babbo Natale è diventato un’icona planetaria. A cosa deve tanta fortuna?«È un personaggio molto sincretico che ha finito per imporsi per questo a livello commerciale. È evidente la sua diretta filiazione rispetto a San Nicola e al Santa Claus dei protestanti. Emblema di una certa americanizzazione delle feste natalizie anche in Europa, Babbo Natale è un nonno bonario che dispensa doni senza imporre condizioni, viziando i bambini».Si può parlare di concorrenza fra le figure simbolo della festa?«Non più, nel senso che viviamo ormai da decenni in Europa in un regime di coesistenza pacifica fra la figura tradizionale di Gesù Bambino e quelle modellate da esigenze commerciali, a cominciare da Babbo Natale. Quest’ultimo, in fondo, attira anche per la sua consonanza con la figura dei nonni, chiamati a svolgere un ruolo importante e particolarmente generoso nel periodo natalizio, quando sono spesso i soli autorizzati ad offrire pure del denaro».