Agorà

Festival. Cormons, musica in trincea a difesa della pace

Angela Calvini venerdì 26 ottobre 2018

I componenti del Giovanni Maier Quintet all’interno della cannoniera di Cotici sulle pendici del Monte San Michele sul Carso goriziano (Foto Luca Alfonso d’Agostino)

Sei enormi bocche di fuoco si aprono, seminascoste dalla boscaglia, mute e minacciose sul fianco roccioso del versante Nord del Monte San Michele sul Carso. Da qui l’artiglieria, durante la decima e l’undicesima Battaglia dell’Isonzo fra maggio e agosto 1917, bombardava senza tregua la zona di Gorizia. Le ampie volte del lungo corridoio della cannoniera vennero scavate nell’inverno del 1916 dalla 3° compagnia del 5° reggimento Genio Minatori sul terreno del cinquecentesco Castello di Rubbia, appartenente ai conti Bianchi, devastato pure esso dai bombardamenti. Cento anni fa qui era tutto pietra, rovina e desolazione. Oggi, a pochi passi dalle cannoniere di Cotici, stanno ingiallendo sotto il sole autunnale le foglie dei vigneti diVivska, Malvasia e Terrano reimpiantati su 10 ettari di terreno dopo la devastazione che distrusse questo vigneto storico insieme alla maggior parte delle vigne d’Europa. Contornata da 16 chilometri di trincee della Grande Guerra e dai bunker della Guerra Fredda, vent’anni fa è risorta una cantina: l’Azienda agricola Castello di Rubbia, nel comune di Savogna d’Isonzo, da cui nella sera escono profumo di mosto e suadenti note jazz che invitano alla serenità. «Vent’anni fa mio padre Venceslav Cernic ha realizzato il suo sogno di bambino quando guardava i ruderi del castello. La ricostruzione assume oggi un messaggio di pace, di unità proprio in quest’Europa di genti diverse che si sforzano per ritrovare un’entità e un’anima comune» racconta l’attivissima Nataša, titolare dell’azienda, diplomata in pianoforte al conservatorio di Trieste e appassionata di jazz, che della sua cantina dall’acustica perfetta ha fatto una sala da concerti.

È proprio in questo luogo simbolico che si è inaugurato in anteprima col progetto multimediale 4x8 - Cent’anni di vittime dimenticate il festival internazionale Jazz&Wine of peace di Cormons, che da 21 anni ad ogni edizione attira 6000 spettatori provenienti da Austria, Italia e Slovenia fra le dolci colline del Collio, dell’Isonzo, del Carso e slovene. Perché da queste parti i confini sono stati sempre labili, per sangue, lingua e cultura, ed oggi, le frontiere che dividevano gli ex nemici sono saltate nel nome della musica e della convivialità. Un festival per la pace nato, come spiega Paola Martini presidente dell’Associazione culturale Controtempo che lo organizza, subito dopo la fine del terribile conflitto nell’ex Jugoslavia. Sinora ha portato a suonare al Teatro Comunale di Cormons e nelle cantine dei produttori tanto friulani quanto sloveni le più grandi star del jazz internazionale. Non senza difficoltà, dato che fino all’entrata della Slovenia in Europa nel 2004 il confine era ben presidiato, anche da ronde militari tra i vigneti transfrontalieri. Anche quest’anno, fino al 28 ottobre, si terranno 40 concerti in 25 cantine storiche, con 100 artisti fra cui la nuova stella del jazz israeliano Avishai Cohen, il leggendario chitarrista americano John Scofield, il grande compositore brasiliano Egberto Gismondi (stasera al Teatro Comunale di Cormons) e il chitarrista inglese Richard Sinclair, domenica al Castello di Gorizia. Da non perdere, anche, domenica pomeriggio il concerto dell’austriaco David Helbock alla Cantina Produttori Cormons. Da qui partì l’idea nel 1983 di impiantare intorno all’azienda la Vigna del Mondo, circa 600 varietà di vite provenienti da centinaia di Paesi da cui nasce il Vino della Pace, inviato ogni anno ai capi di Stato di tutto il pianeta fra cui anche il Papa, con etichette disegnate da grandi artisti, da Enrico Baj, a Dario Fo, Yoko Ono, Mimmo Rotella. Quest’anno, come spiega l’ad Andrea Russo, la vendemmia ecumenica è stata effettuata con rappresentanti delle comunità ortodosse, cattoliche, evangeliche ed ebraiche e significativamente è stato scelto come ambasciatore della nuova annata delVino della Pace il Carcere di Bollate (Milano).

A dare sinora i brividi più sinceri è stato, appunto, 4x8 (Quattro volte otto), progetto che racconta fra musica, recitazione, letteratura e fotografia 100 anni dalla parte delle vittime, scanditi in 1918 (la fine della Grande Guerra), 1938 (l’annuncio delle leggi razziali da parte di Mussolini a Trieste), 1948 (l’esodo degli istriani), 2018 (i migranti di oggi). Nella penombra raccolta della cantina del Castello di Rubbia irrompono subito spari, notiziari sulla guerra in Siria, grida di chi fugge. Poi tra le volte rimbalzano, nervose e malinconiche, le note jazz della FourTimeEight Suiteche il maestro Giovanni Maier, uno dei migliori contrabbassisti europei, ha composto per il suo quintetto nell’ambito del progetto voluto dall’Associazione Nuovo Corso di Monfalcone. Figlio di esuli istriani, Maier ha preso ispirazione dal baule costruito dal padre nel 1948 dove stipò le proprie cose quando dovette fuggire da Visinada d’Istria. «Mio padre mi diceva sempre, io le ho prese sia dai fascisti, sia da Tito. Questo è un omaggio alle tante vittime come lui» ci spiega Maier commosso. Si va dalle reinterpretazioni in free jazz di marce militari austriache o di canti anarchici come Gorizia, tu sei maledetta, sino alle composizioni originali ispirate alla musica klezmer ebraica. Non a caso Maier è uno dei fondatori dell’Orchestra senza confini, composta da musicisti sia sloveni sia friuliani, come pure lo sono i componenti del quintetto, Francesco Ivone, Flavio Brumat, Lauro Rossi e Urban Kusar.

Il lavoro è diventato un cd che accompagna un elegante volumetto (4x8 1918/1938/1948/2018. Cent’anni di vittime dimenticate, Gossmann Edizioni, pag 112, euro 20) in cui sono contenuti le belle foto in bianco e nero di Luca Alfonso d’Agostino che ritrae i musicisti sui luoghi del cuore del Carso di oggi, insieme ai testi di quattro scrittori goriziani, recitati in scena dall’attrice e regista Luisa Vermiglio e da Stefano Paradisi. Lo scrittore Giovanni Fierro racconta i sogni spezzati di un giovane calciatore richiamato al fronte, Sara Stulle lo spaesamento di un bimbo istriano al momento dell’esodo, Francesco Tomada l’identità mista slovena e italiana di Marja e Gianni Spizzo i ricordi veri di sua nonna che assistette al discorso del Duce sulla razza. «Raccontiamo la violenza della storia sulla popolazione di un confine così tormentato – conclude Spizzo –. Una condanna senza appello della violenza dell’uomo sull’uomo, ieri come oggi».