Agorà

Covid. Addio a Gresini, campione di motociclismo

Lorenzo Longhi martedì 23 febbraio 2021

Fausto Gresini

Una foto in bianco e nero, un ragazzo felice con i riccioli ribelli che, sulla moto, abbraccia e bacia sulla guancia un signore di mezza età con il sorriso delle persone per bene; il ragazzo è Marco Simoncelli, il signore è Fausto Gresini e l’immagine è il commovente ricordo della Sic 58 Squadra Corse: «Noi vi immaginiamo così. Ciao Fausto». Sei parole, sufficienti per le lacrime.

L’hanno portato via le conseguenze del Covid, Fausto Gresini, vittima di questa pandemia maledetta che colpisce a tutte le età, che da un anno uccide, affatica, sfibra: l’infezione a fine dicembre, un ricovero di due mesi - nell’immediato a Imola, quindi all’ospedale Maggiore di Bologna - scandito dalle notizie sulla criticità delle condizioni e su squarci di miglioramenti che non hanno portato all’esito che tutto l’ambiente sportivo avrebbe voluto. Gresini è morto a seguito di una emorragia cerebrale ieri, a sessant’anni, lasciando la moglie, i quattro figli e una mestizia infinita nella memoria degli appassionati e degli addetti ai lavori di quel motociclismo che ha permeato la sua vita e di cui era un professionista amato.

Protagonista della 125 fra il 1983 e il 1994, due volte campione del mondo su Garelli - una, nel 1987, da dominatore assoluto, con dieci vittorie in undici gare - negli anni in cui a sfidarlo in pista erano stati prima i Cadalora e Nieto, quindi i Terol e il giovanissimo Capirossi, il pilota romagnolo aveva creato, poco dopo il ritiro, la scuderia che porta il suo nome, la Gresini Racing, e che da ventiquattro anni è un punto di riferimento del motomondiale. Protagonista nella MotoGp, vincitrice di due Mondiali in Moto2, uno in Moto3, del campionato inaugurale della MotoE: questi sono i titoli iridati della scuderia voluta da Gresini, ma ciò che hanno significato e significano ancora oggi il team e il suo fondatore non ha a che fare solamente con le vittorie, ma anche con la speranza. Speranza come opportunità, perché tutti coloro che sono passati nella scuderia di Gresini, giovanissimi, hanno avuto l’occasione di sognare grazie a una scuderia che aveva idee chiare e tutta la credibilità del suo creatore, al punto da diventare un faro per tutti i team non ufficiali, lavorando con Honda e Aprilia, portando alla ribalta Barros, un Capirossi più maturo, Kato, Gibernau, Elias, Melandri e Simoncelli, sino ad Enea Bastianini e Jorge Martin. Speranza appunto. Ciò che ha fatto Gresini per la competitività del motomondiale, da dirigente, è riuscito a pochi altri, ed è riuscito a farlo dove la passione per le moto si respira, diventa lavoro eppure resta la magia di un ambiente di famiglia, di qualcosa di genuino, di un mondo dove si è riusciti a trovare la forza anche nei momenti peggiori, quelli del dramma.

«La MotoGp mi ha tolto tantissimo», ha ricordato spesso Fausto Gresini nelle interviste come contraltare di tutto ciò che, al contrario, dal motociclismo aveva ricevuto, e il riferimento di quelle parole erano le tragedie che hanno colpito violentemente i “suoi” ragazzi. La morte di Daijiro Kato a Suzuka - era il 2003 - e quella di Marco Simoncelli a Sepang, sette anni più tardi: ferite impossibili da rimarginare, un dolore destinato a restare, sebbene chi conosca le moto sappia bene che il rischio è dietro alla curva ma tenti sempre di neutralizzarlo. In questo 2021 Gresini Racing non avrebbe partecipato al Mondiale di MotoGp, ma aveva già presentato il team per la Moto2, con Bulega e Di Giannantonio in sella, e per la Moto3 con l’argentino Rodrigo e lo spagnolo Alcoba, ed era stato proprio Gresini, a metà dicembre, ad annunciare l’accordo per il rientro in MotoGp per cinque stagioni, a partire dal 2022, come team indipendente. Una nuova sfida: «Stiamo già lavorando a questo progetto enorme, e sveleremo poco a poco tutti i dettagli», erano state le parole di Gresini prima di Natale, quando lo sguardo era rivolto al futuro e all’orizzonte, dietro alla curva, non sembrava esserci nulla di tutto questo.