Agorà

Milano. A che serve una nuova mostra su Caravaggio?

Maurizio Cecchetti mercoledì 25 ottobre 2017

Caravaggio, particolare dalla "Madonna di Loreto" (Roma, Sant'Agostino)

Anno 2016, l’editore Silvana ha pubblicato due monumentali volumi che assieme contano quasi milletrecento pagine, illustratissime, sulle opere romane di Caravaggio, con pompose note iniziali del ministro Dario Franceschini, di Daniela Porro (direttore del Segretariato regionale del Mibact per il Lazio), dello storico Maurizio Calvesi (presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni del Quarto centenario della morte di Caravaggio) e della storica Mina Gregori (nessuna qualifica in calce, trattandosi della signora degli studi caravaggeschi in Italia). Il centenario cadeva nel 2010, giusto per la cronaca.

Bene. A tirare le fila della ponderosa analisi, divisa in volume di saggi e volume di schede, c’è la storica Rossella Vodret, all’epoca soprintendente romano. I due tomi sono per specialisti, con confronti, dettagli, radiografie per portare finalmente alla luce i dati tecnici del dipingere caravaggesco. A quanto pare dopo un secolo di studi (migliaia) non si è ancora ben chiarito come dipingeva Caravaggio. Ogni studio che ci illumini è benaccetto ovviamente. Più si capisce del modo di operare (e qui alludo, specularmente, a una categoria evocata da Merleau-Ponty, quella di “pensiero operatorio”, cioè quel pensiero che tratta ogni cosa come oggetto da dissezionare scientificamente), più si entra «dentro Caravaggio». È questo il titolo anche della mostra che attualmente è in corso a Milano al livello superiore di Palazzo Reale fino al 28 gennaio. E chi la cura? Sempre lei, Rossella Vodret. Chi c’è nel comitato scientifico? I venerati maestri Maurizio Calvesi e Mina Gregori. Chi fa da presidente? Keith Christiansen, presidente del dipartimento pittura europea al Met di NewYork, e militante nel partito “estensionista” del catalogo caravaggesco, il partito oggi vincente (vedi la clamorosa proposta a Brera nel 2016 come autografa di una Giuditta e Oloferne rinvenuta a Tolosa e parte ovviamente di una operazione speculativa che portò alle dimissioni di Giovanni Agosti dal comitato scientifico del museo).

Ora io non so più quante pubblicazioni su Caravaggio abbia scritto la Vodret, tante, innumerevoli, segnalo solo che nel 2009, sempre per Silvana, pubblicò l’opera completa del pittore. E nel volume che accompagna la mostra in corso a Milano la Vodret scrive altri quattro saggi: una introduzione alla mostra, due saggi su singole opere, un saggio di 36 pagine che porta il titolo della rassegna. Arriverà mai alla sintesi finale se non ultimativa dell’opera caravaggesca? Ce lo auguriamo di cuore.

Ma qui il punto è un altro. Perché questa mostra a Palazzo Reale? Che cosa dice di nuovo all’uomo della strada? È costata, sembra, tre milioni e mezzo di euro e per quella cifra è corredata da un grosso catalogo edito da Skira con foto di non grande qualità e tutte impastate di nero che ci restituiscono un Caravaggio principe degli spazzacamini. Secondo il funzionario che dirige Palazzo Reale, Domenico Piraina, questa mostra sarebbe la conclusione di studi iniziati nel 2009 e sviluppati fino al 2012 in occasione del centenario caravaggesco: il referto arriva sette anni dopo la data canonica. L’aggancio sta tutto probabilmente nell’accesso a finanziamenti pubblici stanziati all’epoca e la cui scia di cometa brilla ancora oggi.

En passant l’ho definitita «la maramaldesca mostra di Caravaggio a Milano». Non l’ho scritto a caso, e la vittima designata è lo spettatore. Siccome voglio essere chiaro, attingo al vocabolario Treccani: «Di comportamento prepotente e sopraffattorio nei confronti di persona impossibilitata a difendersi». E dove stanno prepotenza e sopraffazione? Nel vendere questa mostra con venti opere per lo più accettate da gran parte degli studiosi come mostra-evento di Caravaggio per il grande pubblico: si dice il vero e il suo contrario al tempo stesso.

Il vero: mettere insieme venti opere del Merisi a Palazzo Reale è certamente un’impresa, però esiste il famoso precedente longhiano del 1951 che fece mezzo milione di visitatori e richiamò davvero il popolo, anche per l’opera di assistenza dell’apparato comunista dell’epoca che sposò la visione “sociale” di Longhi: il Caravaggio «umano e non umanista» in evidente contrappunto agli uomini d’oro del Rinascimento che Longhi non digeriva affatto (e ci teneva così tanto alla sua mostra che quando si ristampò a distanza di un mese il catalogo, Longhi apportò alcune correzioni stilistiche al proprio saggio introduttivo). Ma il popolo di oggi è un’altra cosa, è quello creato dalla società dei consumi, che si muove per motivi turistici, non certo ideologici. Farà duecentomila presenze o più? Ottimo, ma non sarà diversa da quelle che abbiamo visto e rivisto negli ultimi dieci anni, compresa quella delle Scuderie del Quirinale per il centenario.

Il contrario del vero: questa rassegna concepita mostrando l'opera e sul verso della parete alla quale è appesa un sofisticato apparato video-informatico che evidenzia radiografie, pentimenti, precedenti immagini poi coperte, e i famosi segni che Caravaggio tracciava sull’imprimitura ancora fresca con la punta del manico del pennello – ecco forse questa tecnologia susciterà meraviglia, ammesso che il visitatore voglia spendere tempo per sorbirsi i confronti, ma fino a che punto gli faranno capire qualcosa di Caravaggio che non riguardi esclusivamente le congreghe degli studiosi?

Non è una mostra popolare; arrivo a dire che è una mostra Kitsch perché l’armamentario predisposto colpisce con la tecnica ma svia la vera comprensione dell’opera, della poetica e dello stile caravaggesco, e non consente di cogliere de visu una rete di significati che lo svelino nella sua verità interiore. Molta tecnica ma poco arrosto – e l’arrosto viene quasi sempre dalle idee e dalle interpretazioni dei contenuti –, che ci aiuti a capire perché noi uomini della strada sentiamo Caravaggio come nostro contemporaneo. La mostra, insomma, paga pegno alla cultura di oggi dove i mezzi contano più della sostanza (conta l’effetto, direbbe Hermann Broch che sul Kitsch ha scritto cose rimarchevoli).

Ma restiamo sulla tecnica. La famosa querelle che si domanda se Caravaggio disegnasse oppure no, secondo alcuni si risolve con le tracce eseguite col manico del pennello, che Mina Gregori nel 1991 aveva chiamato “incisure”, vocabolo piuttosto bislacco, in occasione della mostra fiorentina Caravaggio. Come nascono i capolavori. Dato il titolo, l’antecedente di questa di Milano. Salvo che a proposito di quelle tracce, già nel 1974 Maurizio Marini nella sua monografia sul Merisi l’aveva proprio descritte così: disegnava con la punta del manico del pennello. Dunque che cosa aggiungeva la Gregori? Un termine neanche tanto felice.

A proposito di disegno, si può anche pensare che Caravaggio giovane recalcitrasse, ma deve averne praticato parecchio come apprendista del Peterzano; e talvolta, forse era spinto dalla sua impulsività a saltare i preliminari per così dire, aiutandosi col manico del pennello come se abbozzasse un’insolita sinopia. Secondo me, una spia di questa difficoltà o antipatia verso il disegno possono essere le mani dipinte da Caravaggio, che denotano spesso insicurezza e approssimazione. Ma questo non m’impedisce di dire: giù le mani da Caravaggio! Chiedo una moratoria di tre anni su mostre e saggi dedicati al Merisi. Parli solamente chi ha davvero qualcosa di nuovo da dire sulla sua poetica, non sulla sua tecnica.