Agorà

Il caso. I "padroni" delle mostre

Maurizio Cecchetti sabato 4 novembre 2017

Sarebbe interessante, e soprattutto utile, risalire al momento iniziale che ha fatto di un prezioso istituto culturale come quello delle “mostre temporanee”, che era appunto un mezzo di studio e di bilancio del lavoro fatto su un artista o un’epoca ovvero un genere artistico, uno strumento di consenso e di consumo per le masse. È questo, in sostanza, uno dei limiti principali del pamphlet di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione Contro le mostre: senza individuare un periodo e un momento preciso da cui cominciare non ci può dire nemmeno come e perché il fenomeno è degenerato fino agli eccessi dell’industria culturale di oggi, dove ogni cosa è trattata alla stregua di un bene di consumo.

Il libro è una diagnosi dell’esistente, ma non spiega come siamo arrivati a questo. Bisogna decidere come classificare questo pamphlet edito da Einaudi. Leggendo mi sono venute in mente due definizioni, ma poi ho avuto il sospetto che siano intercambiabili: “Librocandidatura” ovvero “Mozzarella Blu” (ricordate il batterio che azzurrava uno dei latticini più diffusi nelle nostre case? Non era tossico, ma poneva una questione di psicologia alimentare: lo mangio o non lo mangio, mi fido o non mi fido?). Nel nostro caso, parliamo di anticorpi critici. Marc Fumaroli, senza aspettare che Montanari e Trione finissero l’università e mettessero a punto il loro pensiero critico in materia di mostre, nel 1993 pubblicò un pamph-let contro Lo Stato culturale nel quale criticava senza peli sulla lingua l’intervento pubblico a favore di una cultura artistica strumentale al consenso politico e a discapito della tutela del patrimonio.

Quando è cominciata la deriva del “mostrificio” contemporaneo? Il saggio di Fumaroli veniva al termine di una lunga gestione del Ministero della Cultura francese da parte di Jack Lang, che sotto i due mandati presidenziali di François Mitterrand aveva incarnato un modello di intervento pubblico nella cultura come mezzo di propaganda e di consenso politico (erano gli anni che precedevano il bicentenario dell’89, poi celebrato con la solita Grandeur): le mostre erano parte della strategia politica del nuovo imperatore che commissionò edifici museali, musicali, scientifici, biblioteche e luoghi della moda, cambiando il volto di Parigi in pochi anni. Lang però arrivava tardi: dalla metà degli anni Settanta l’architetto Renato Nicolini, assessore della Capitale, aveva inaugurato le “Estati romane”, osannate e criticate come espressione dell’effimero. Nicolini, uomo colto e pop al tempo stesso, giocò la carta subdola della cultura per “divertire il popolo” (o le masse, se volete). Fu emulato dalle amministrazioni comunali italiane grandi e piccole che cominciarono a spendere un sacco di soldi per l’effimero, ovvero per ciò che accade e passa pur lasciando un segno nella memoria della gente: mostre, concerti, kermesse culturali, teatrali, cinematografiche.

Fu solo l’inizio di un percorso che ci portò in eredità l’epigono di Nicolini, Walter Veltroni, cultore di cinema e artefice della svolta maggioritaria del pd. Da vicepresidente del Consiglio con delega al Mibac, Veltroni introdusse anche la seconda estrazione del Lotto a sostegno della tutela del patrimonio e coniò la prosaica metafora del Belpaese come giacimento petrolifero: i beni artistici sono il nostro oro nero, disse. Dopo Veltroni la linea texana dell’“arte come petrolio” ha prevalso fino a generare il cataclisma turistico attuale che dissemina scorie d’ogni genere nel Belpaese. Che volete che sia, se porta economia e ricchezza... È la politica che lo vuole, chiaro: il Mibac, infatti, è diventato col governo Letta il Mibact. Si è aggiunta, nelle competenze del ministero, quella “t” implicita nel paradigma petrolifero di Veltroni: il turismo.

Torniamo al libro di Montanari e Trione. Più che un pamphlet è un manifesto- candidatura al posto di ministro Mibact dopo le prossime elezioni. Ecco l’ipoteca posta da Montanari, nemmeno troppo velatamente, su quella poltrona: «Checché ne dica il ministro demagogo di turno, questo processo non ha nulla a che fare con la democratizzazione della cultura». Lasciamo stare quando gli autori entrano in questioni come il diritto alla bellezza, l’arte gratuita, l’arte senza nome (quella di chi ha raggiunto il successo senza mostrare la propria carta d’identità, come, pensate un po’, Elena Ferrante e lo street artist Bansky). Il peggio viene quando giudicano in positivo. Qualche mese fa, in piena sindrome migranti, l’artista cinese Ai Weiwei sistemò «sulle facciate di Palazzo Strozzi un’installazione di straordinaria efficacia, che ne rispetta l’architettura rinascimentale» (!?). A parte le valutazioni sul talento del dissidente cinese più attivo sulla scena internazionale (non proprio un recluso), fu una delle più furbesche e brutte installazioni mai viste: aveva tappezzato le facciate del palazzo con una fila di gommoni. Perché non scherzare un po’ allora sull’installazione di Christo, che lo scorso anno portò migliaia di visitatori a camminare sulle acque del lago d’Iseo: dato il nome dell’artista, non fu anche quello un vero miracolo?... Economico, beninteso.

Poi arriva la difesa di un loro caro amico, Salvatore Settis, che curò la mostra Serial Classic nei nuovi spazi milanesi della Fondazione Prada, mostra che «ha il merito di ribaltare tante consuetudini storiografiche». L’erudizione di Settis è fuori discussione, ma il giudizio su quella mostra dovrebbe essere ben altro e riguardare il potere del capitalismo nell’accedere a prestiti museali che spesso non vengono concessi nemmeno alle sedi pubbliche. Settis è stato il mentore di Montanari e Trione, in quanto consulente Mibact. Ed era anche a capo del comitato scientifico del Mart, con Giovanni Agosti, quando nel 2013 avvallò l’idea di allestire nel Museo di Rovereto, sede di collezioni e mostre d’arte contemporanea, una retrospettiva su Antonello da Messina, che fece discutere proprio per la sede ospitante. «Qualcosa lascia perplessi e rischia di insinuare solo equivoci » sulla vocazione del Mart, scrive Trione. Tutta qui la perplessità? Certo che no.

La vera perplessità (taciuta tuttavia), è sull’uso del Mart per un “regolamento di conti” della critica longhiana ufficiale contro chi, Mauro Lucco, nel 2006 alle Scuderie del Quirinale curò una retrospettiva dell’artista messinese insinuando che Longhi avesse sbagliato nel sostenere l’influenza di Piero della Francesca su Antonello. Fu accusato, anche giustamente, di voler «azzerare l’intera tradizione di studi», di far fuori Longhi insomma. Ma perché mettere in piedi dopo appena sette anni una tale e difficile impresa solo per controbattere a una tesi che, dopotutto, si può discutere agevolmente scrivendo un saggio critico? Ferdinando Bologna, decano degli studi caravaggeschi, dichiarò di non sapere perché fosse stato messo a capo di quella mostra al Mart, e fece due nomi: «Bisogna chiederlo ai responsabili del museo, a Salvatore Settis e Giovanni Agosti che me l’hanno proposto». Va aggiunto un ultimo rilievo: l’attuale direttore della Gnam di Roma, Cristiana Collu, grande protetta negli ambienti istituzionali e già consulente del Mibact (così che quando Franceschini doveva nominare i venti superdirettori lei non ebbe problemi a candidarsi contemporaneamente alla Gnam e a Brera, due musei che più diversi non potrebbero essere) all’epoca della mostra di Antonello era direttrice del Mart. Un altro esempio di benpensantismo dei nostri pamphlettisti?

Se la pigliano con la moda (in senso proprio) di cedere ai brand dello stilismo le sale dei musei per esibire i loro abiti. «Affermare che [lo stilista tunisino Azzedine] Alaïa è arte allo stesso modo di quella di Bernini e Canova giova davvero alla nostra comprensione dell’arte del passato?» si chiede Montanari (p. 136). Naturalmente ciascuno è libero di prendersela con la couture sculpture. Ma il vero j’accuse avrebbe dovuto essere verso la direttrice della Galleria Borghese, Anna Coliva, che ha organizzato mostre “commerciali” come Caravaggio e Bacon o L’origine della natura morta in Italia. Caravaggio e il Maestro di Hartford. Tirare in ballo il nome di Anna Coliva, confermata da Franceschini a capo della Galleria Borghese e molto introdotta negli ambienti romani e non solo, però era rischioso se ci si candida a certi ruoli istituzionali.

Arrivati alla pagina 154, l’ultima, ecco la sconcertante dichiarazione dei due pamphlettisti: «Il tema decisivo però è un altro» (finora, dunque, di che cosa abbiamo parlato?): «mentre le mostre chiudono l’arte in gabbie a pagamento, la Street Art la restituisce a tutti, gratuitamente ». Populismo, mammolismo oppure snobismo progressista? Fate voi.

Comunque sia, ecco il mio j’accuse: Trione denuncia la pessima cultura che fa di ogni mostra un “evento”. Perché mai, allora, i nostri lancillotti dell’arte di strada non hanno speso una riga – punto, questo, sì decisivo – contro il carnefice che ha portato alla quasi completa scomparsa della critica militante sui giornali? Perché non hanno preso di mira il malcostume che da anni si è imposto nei maggiori quotidiani italiani di pubblicare pagine sull’“evento” (che in gergo si chiamano “redazionali”) senza che il lettore possa riconoscere al volo, per grafica e impaginazione, che si tratta di pubblicità: e quel che è peggio di pubblicità che si avvale spesso delle stesse firme che abitualmente scrivono pezzi di critica nelle pagine ordinarie? I direttori dei giornali italiani dovrebbero interrogarsi su questo malcostume, che ha reso vano lo stesso “giudizio di valore” della critica. Che un pamphlet “contro le mostre” non ponga al primo posto questo tema, vuol dire che chi lo ha scritto ha qualcosa da perdere. Devo arrendermi al genio maligno di Cartesio che insinua: mozzarella blu, mozzarella blu, blu blu blu...