Agorà

Calcio. Addio Pietruzzo, la stella del Sud

Massimiliano Castellani sabato 18 gennaio 2020

Pietro Anastasi in un'immagine del 2010

Pietruzzo è appena volato via leggero, come quello scatto, rapido, con cui metteva a sedere il terzino e gonfiava la rete. Pietro Anastasi, il bomber di una Juventus anni ’70, che vivrà per sempre nella memoria dei tifosi bianconeri (specie quelli del Sud), se ne è andato a 71 anni dopo aver sfidato e tentato di sconfiggere la malattia. Se ne va quello che persino un cuore Toro come lo scrittore Alessandro Baricco ha definito «il simbolo di una classe sociale che lasciava a malincuore il Sud per andare a guadagnare nelle fabbriche del nord».

Pietruzzu, il ragazzo di Catania, quartiere Fortino. Pelle olivastra da indio etneo, anzi no: chiamatelo ancora «’U Turcu» come fa la gente catanese. Emigrato dalla Massiminiana (il club di famiglia del padre-patron del Catania, Angelo Massimino) per stanziarsi alla corte degli Agnelli. Anno di grazia azzurra 1968, Anastasi mette la sua firma nella finale - ripetuta con la Jugoslavia - degli Europei («2-0 gol di Riva e poi il mio»), regalando all’Italia il primo e ancora unico titolo continentale.

Cinquant’anni dopo Pietro il grande ricordava ogni singola battaglia in campo, anche se quella più dura l’ha combattuta fino a venerdì sera (il figlio ha detto che soffriva di Sla, diagnosticata dopo un tumore all’intestino, e all’ultimo avrebbe chiesto la sedazione profonda). Pupillo dell’Avvocato che lo volle a tutti i costi alla casa reale della Vecchia Signora. «Gianni Agnelli in persona fece lo “sgambetto” all’Inter che aveva praticamente chiuso l’accordo con il commendator Borghi, il presidentissimo del Varese, club in cui mi ero messo in mostra», raccontò ad “Avvenire” alla vigilia di Natale dello scorso anno, sdraiato sul suo letto di malato che ancora sperava. «Ma l’Avvocato mise sul piatto una cifra record: 660 milioni, più una fornitura di motorini per i frigoriferi Ignis che fabbricava Borghi».

La Juve comprando Anastasi fece un affare e anche un’azione “politico-sindacale”: ottenere la tregua dagli operai meridionali della Fiat Mirafiori in piena agitazione sessantottina. La squadra bianconera da quel momento in poi divenne una fucina di “talenti sudisti”: Gentile il tripolitano, Furino il palermitano, Causio il leccese, Cuccureddu da Alghero e appunto Pietruzzu, il catanese. «L’identificazione tra il popolo bianconero di origine meridionale e noi che eravamo degli emigrati, privilegiati, ma comunque emigrati al Nord, fu molto forte in quegli anni. Avvertivamo forte il calore della nostra gente al Comunale di Torino che era lo stesso, per intensità, che ritrovavamo anche negli stadi da Roma in giù. E quel calore era una grande spinta in campo». Però Anastasi fu anche una delle prime vittime del razzismo da stadio, e questo, mezzo secolo prima dello juventino Matuidi al quale i tifosi avversari rinfacciano di essere un “nero”... «Comprendo Matuidi e mi dispiace... Nel 2018 sentire certi cori mi dà nausea. A me quando mi gridavano “terrone” mi gasavo ancora di più e puntualmente mi vendicavo facendo gol. Una volta poi, a un tifoso avversario che non mi dava pace risposi: “Oh, io sarò anche un terrone ma intanto guadagno molto più di te che sei un maleducato e un polentone”. Zittito!» Muti anche gli acerrimi rivali del Torino che per 6 volte hanno dovuto subire la “vendetta“ del goleador Anastasi. «Dei 6 gol segnati al Torino il più bello? Quello del mio primo derby: lo feci a Lido Vieri che era furioso. Segnai al 90’ e fu la rete del 2-1 per la Juve. Il campionato poi lo vinse la Fiorentina ma io quell’anno segnai 15 gol, vicecapocannoniere dietro a Gigi Riva».

Anastasi con la maglia della Nazionale - ANSA

Gli juventini di vecchia data ricordano ancora la sua tripletta in 4 minuti rifilata alla Lazio, partendo dalla panchina. «Avevo litigato con l’allenatore, Parola... L’Avvocato fece di tutto per convincermi ad andare in panchina, ma io niente, non ne volevo sapere. Pranzai a casa e solo il pressing amorevole di mia moglie Anna alla fine mi convinse ad andare allo stadio. Poi faccio quei tre gol e alla sera squilla il telefono, era l’Avvocato: “Che le avevo detto Anastasi che doveva andare in panchina”. Io non ebbi il coraggio di dirgli che se non era per Anna non mi sarei presentato». Era una domenica di marzo del 1975, la Juve a maggio vinse lo scudetto e l’anno dopo glielo scucì il Torino. «Perdemmo lo scudetto all’ultima giornata a Perugia, segnò il povero Curi» che nel ’77 poi morì in campo, come Astori, arresto cardiaco. Nel ’76 prevalse il “Cuore Toro” «che non era solo un modo di dire ma una grinta e una rabbia autentica che vedevi sprizzare negli occhi di quei granata, allenati da Gigi Radice, che non mollavano mai. Noi della Juve ci mettevamo un po’ di classe in più e la mentalità vincente che da sempre sa trasmettere la società bianconera ai suoi giocatori dal momento in cui arrivano in sede».

Anastasi è rimasto sempre juventino, anche quando nel 1976 dovette subire lo scambio di mercato con Boninsegna e passare all’Inter. Parentesi triste per lui come il calcio di oggi. «Non mi diverto più ad andare allo stadio, perché sento che in questa generazione sta venendo meno la passione, il gusto del gioco fine a se stesso che avevamo noi. I calciatori d’oggi se ne fregano dell’attaccamento alla maglia, ormai si sceglie un club (o meglio scelgono i procuratori per loro) solo in base a quanti milioni si possono guadagnare... Il mio idolo resta il grande John, che sta da sempre qui con me, anche nel portafoglio (dove tiene la figurina di John Charles). La prima volta che lo vidi giocare facevo il raccattapalle a Catania, poi alla Juve quando l’ho conosciuto è come se avessi abbracciato un fratello maggiore. Charles era fortissimo, lo preferivo a Sivori, perché non era solo un campione ma un vero “gigante buono”». Addio piccolo, grande Pietruzzo, che la terra ti sia lieve.