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Cinema. Montaldo: «I miei film, risposta all'intolleranza»

Massimiliano Castellani sabato 12 giugno 2021

Questa lunga storia d’amore, tra Giuliano Montaldo e il cinema, è cominciata esattamente settant’anni fa, nella sua Genova, dove è nato nel 1930. Inizia con il primo ciak sul set di Achtung banditi di Carlo Lizzani, in clima di neorealismo puro. «Conoscevo ex partigiani che misero in piedi una cooperativa che forse è rimasta un esempio unico nella storia: era formata dagli stessi spettatori che chiedevano di realizzare quel film. E ci riuscirono, scontrandosi duramente con la censura che non voleva più saperne di pellicole sulla Resistenza, perché mostravano i panni sporchi della nostra storia».
Correva l’anno 1951, e il giovane Giuliano, magrissimo e con i suoi occhi celesti, tersi come il cielo di Roma, marciava spedito verso Cinecittà per coronare il sogno: diventare un regista.
Ma appena arrivato a Roma, per sbarcare il lunario mi accontentavo di particine da attore in Cronache di poveri amanti di Lizzani, ne Gli sbandati di Citto Maselli o L’assassino di Elio Petri. Strappavo qualche liretta da aiuto regista in Kapò di Gillo Pontecorvo e finalmente, nel ’61 debuttai dietro la camera da presa con Tiro al piccione.
Tratto dal romanzo di Giose Rimanelli, il giovane regista all’esordio fa i conti con la Repubblica di Salò.
Ricevetti tante di quelle bastonate da destra e sinistra che quasi volevo abbandonare l’idea di fare cinema. Ma per fortuna arrivò lei... – dice emozionato – l’amore della mia vita, Vera Pescarolo. Stiamo assieme da quasi 62 anni sa: la considero il mio unico vero capolavoro. Vera è la passione più grande, la donna e la compagna di set che mi ha sempre sostenuto anche nel mio, nel nostro mestiere, che è il più incerto che conosca...
Parole di un eterno innamorato, scritte a macchina e raccolte nella romantica autobiografia – firmata dallo stesso Montaldo – Un grande amore (La nave di Teseo. Pagine 188. Euro 18,00). E lì, si legge che gli incerti del mestiere vennero subito fugati dal trionfo, inatteso, al Festival di Berlino del ’65 con il film Una bella grinta.
Vincemmo il premio speciale della giuria. Nella busta gialla del premio in denaro c’erano 40mila marchi, l’equivalente del costo di produzione e ce lo siamo spartiti in parti uguali io, Leo Pescarolo – fratello di Vera – e Renato Salvatori. Un amico Renato, l’unico nome noto del cast e quei soldi se li giocò sicuramente a carte, ma era un fenomeno, vinceva sempre.
Anche lei vinse portando sul grande schermo il romanzo neorealista di Renato Viganò, L’Agnese va a morire.
Un altro film girato a bassissimo costo. Il vero produttore dell’Agnese fu il popolo generoso di Romagna.
Generoso quanto i romagnoli fu Bud Spencer che abbandonò momentanea- mente i contratti milionari firmati con Terence Hill per offrirsi «gratis» al suo Gott mins uns – Dio è con noi – .
Un uomo meraviglioso Bud Spencer: voleva dimostrare di essere un attore grande e non solo il “grosso” scazzottatore western. La sua apparizione sul set fu una magia: si era portato dietro una cucina mobile, e grazie a lui organizzammo cene stupende in un clima da convivio. Un’atmosfera ideale che ho quasi sempre stabilito con gli attori, salvo rare eccezioni....
Allude agli incidenti di percorso durante la lavorazione di Ad ogni costo ?
«Maledetto Klaus Kinski – sorride Montaldo – appena usciva di scena ne combinava di tutti i colori, un disastro. Anche con John Cassavetes, per Gli intoccabili, la prima settimana fu turbolenta. John era un regista e soffriva molto i miei tempi di direzione. Stavamo arrivando alle mani e allora gli urlai: dai John, scambiamoci i ruoli! Poi abbiamo fatto pace, ma non venne a Cannes per la presentazione: con i soldi che gli avevamo dato stava girando il suo nuovo film in America.
Gli americani, allora, cercavano anche Montaldo...
Sì ma proponevano solo western. Così ricominciai daccapo, andando alla ricerca di storie in cui potevo esprimere la mia necessità di combattere l’ingiustizia e l’intolleranza, che sono poi le madri di tutte le catastrofi umane.
Ingiustizia e intolleranza si ritrovano a pieno nel suoSacco e Vanzetti.
Un film quasi perfetto, a cominciare dalle musiche di Ennio Morricone e la Ballata cantata dalla voce meravigliosa di Joan Baez. Gian Maria Volontè era difficile da gestire, viveva il personaggio in maniera viscerale, era diventato Bartolomeo Vanzetti. Più facile dirigere Riccardo Cucciolla che interpretò magnificamente Nicola Sacco e alla fine a Cannes lo premiarono con la Palma del miglior attore. Ma forse – sorride – perché sapevano che tanto Volontè se ne fregava dei premi, una volta ne lasciò uno alla stazione.
Volontè è stato anche il protagonista straordinario del suo Giordano Bruno.
Con quel film ho avuto il piacere di essere molto apprezzato anche dai cattolici. Volontè geniale e folle, come sempre. La notte prima di girare la morte di Giordano Bruno venne a bussare alla porta della camera d’albergo dove dormivamo io e Vera. Gian Maria spalancò la porta gridando: «Ma come fate a dormire quando io domani verrò arso al rogo?». Si calmò solo quando lo lasciamo entrare nel nostro letto. Poi si addormentò come un angioletto.
Genio assoluto, come Burt Lancaster che per lei non solo mise i panni di papa Gregorio X ma gli consigliò di chiamare Ken Marshall per interpretare il protagonista del suo kolossal Rai Marco Polo.
Alla Rai brindarono a champagne, riuscirono a vendere il film in 42 paesi. Per il ruolo di Marco Polo avevo scelto Mandy Patinkin che però si era appena sposato e quando seppe che per tre mesi avremmo girato in Cina e mezzo Medio Oriente senza mai tornare a casa, scoppiò a piangere e chiese di rinunciare al film. Così Lancaster mi diede la dritta di Marshall, ed è stata una fortuna.
Negli anni ’80 oltre al Marco Polo la sua filmografia si impreziosisce con Gli occhiali d’oro tratto dal racconto ferrarese di Giorgio Bassani che era rimasto scontento da Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica, nonostante avesse vinto l’Oscar del ’72, come miglior film straniero.
Sapevo che stavo rischiando con Bassani, era molto esigente sulla resa della opera letteraria. Gli chiesi di poter beneficiare della sua voce fuori campo per raccontare la storia. Alla fine delle riprese Giorgio mi abbracciò e mi disse una cosa che mi riempì d’orgoglio: «Guliano, mi hai fatto scoprire delle cose... potrei riscrivere Gli occhiali d’oro seguendo la tua sceneggiatura».
Anche lei, ha scritto nel libro, vorrebbe tanto «riscrivere» la storia di un film a cui teneva molto, Tempo di uccidere.
È il mio più grande rimpianto. Amavo follemente il romanzo di Ennio Flaiano, ma sbagliammo tutto, a cominciare dalle location... Unica consolazione, per fortuna che Flaiano non ha visto il film, quando uscì nelle sale (nel 1989) era morto da quasi vent’anni.
La sua ultima regia risale a dieci anni fa, L’industriale, protagonista Pierfrancesco Favino, ma prima di mettersi a riposo ha chiuso da attore, in Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni. E con il David di Donatello per il miglior attore non protagonista ha smentito anche Vera che quando lo vide recitare in Cronache di poveri amanti gli diede del «cane».
E infatti quando sono salito sul palco a ritirare il David stavo per abbaiare – ride divertito – , poi ho fissato lo sguardo commosso di Vera e mi sono emozionato anch’io...
Un’emozione quotidiana: seduti sul divano della casa di Procida, il loro nido d’amore, Giuliano e Vera si tengono per mano anche stasera. Alla vostra età la morte fa paura?
A me no, ma sto facendo di tutto per andare in paradiso – sorride – . Riconosco un solo partito degno di questo nome, ed è quello di Gesù. Da oltre duemila anni è l’unico partito che dà da mangiare ai poveri, difende le donne oppresse, combatte tutte le ingiustizie e le intolleranze possibili. E poi, è fondato sull’amore.