Agorà

Tonache. Il mondo capovolto dei preti in trincea

Marco Roncalli sabato 3 gennaio 2015
Se, tra i saggi dedicati alla prima guerra mondiale, non pochi, con dovizia di dettagli, illustrano il travaglio vissuto dalla Chiesa cattolica nel conflitto, sono meno, invece, quelli che ne evidenziano le radici delle contraddizioni, il bagaglio culturale delle gerarchie e del clero alle prese con soluzioni e alleanze, e le conseguenze provocate dalla guerra dentro la Chiesa e nei percorsi di tanti sacerdoti passati attraverso le trincee. Tutto questo ha però un quadro di riferimento che va considerato prima di qualunque analisi: sia essa destinata a toccare i temi della patria in armi o del nazionalismo, delle lacerazioni provocate dall’autorità religiosa e civile, o dall’essere preti e cittadini; sia orientata a riflettere sui diritti traditi della pace e della giustizia, sul valore della vita, della dignità umana, dell’esperienza della morte. Ci riferiamo qui al rapporto Chiesa e mondo. E lo facciamo proprio partendo da una premessa che don Bruno Bignami, presidente della Fondazione don Mazzolari, formula, lucidamente, nel suo libro La Chiesa in trincea, appena edito da Salerno (pagine 142, euro 12), con queste parole: «Allo scoppio della Prima guerra mondiale, la Chiesa era già in guerra. Lo era, a suo modo, con la modernità. Da decenni e senza esclusione di colpi si stava consumando uno scontro frontale con le differenti correnti del pensiero moderno. Prima il protestantesimo, poi il liberalismo, l’indifferentismo, il socialismo e la massoneria diventarono oggetto di una contrapposizione sempre più dura attraverso documenti, condanne, sospensioni a divinis, scomuniche, accuse, sospetti di eresia, elenchi di libri proibiti. Il solco tra Chiesa e modernità si era fatto così profondo che il linguaggio bellico sembrava essere quello più confacente a descrivere la situazione …».Così proprio quel conflitto vanamente scongiurato da Benedetto XV, e poi giustificato anche dall’episcopato italiano sotto l’influsso nazionalista e nella convinzione di un risveglio per la coscienza religiosa, finì per spingere la Chiesa a riconfigurarsi non solo sul teorema della "guerra giusta" (perché "difensiva"), ma anche, appunto, sul suo rapporto col mondo. Un dato, questo, che coinvolse particolarmente i ventiduemila ecclesiastici militari (poco meno della metà dei quali erano chierici e novizi) che non trovarono spazio fra gli oltre duemilacinquecento cappellani militari. Finiti al fronte fra i soldati a sperimentarne le stesse condizioni, videro frantumare quella separazione tra Chiesa e mondo accentuata nei seminari nel clima antimodernista, i cui residui si cristallizzavano tutt’al più negli approcci di ciascuna Chiesa nazionale «verso il Paese nemico portatore di idee della modernità da contrapporre alla propria fedeltà cattolica». In ogni caso, come ci ricorda ancora Bignami, «nel conflitto, l’incontro scontro con la cruda realtà fece emergere potenzialità di evangelizzazione inattese, ma soprattutto un senso profondo di condivisione verso l’umanità sofferente. Niente fu più come prima». Fu questa condivisione a rendere credibili tanti sacerdoti, a far trasformare in loro la crisi in ripensamento del proprio ministero. Ecco perché, don Peppino Tedeschi, pur finito nel lager di Hameln definì il periodo bellico nelle sue Memorie di un prigioniero (pubblicate dall’Editrice La Scuola nel ’47), come «la parte migliore» della sua vita. Cioè, quella in cui poté «fare del bene». Anche don Angelo Roncalli, cappellano militare e futuro papa, in una nota diaristica del 1° febbraio 1917 si riferisce a «tutto il bene che il Signore vuole da noi sacerdoti ottenere attraverso questo generale sconvolgimento degli uomini». E pure don Minzoni, che tanto pregò il Signore perché facesse cessare l’«immane flagello», giudicò quello bellico «il periodo più bello ed emozionante» della sua vita. Un’altra "lezione" appresa dalla guerra veniva fissata sulla carta dal citato don Tedeschi con queste parole al rientro a casa : «…mi sembra che […] dovrò essere molto generoso nel perdonare; [...]; che noi sacerdoti dobbiamo essere dei santi […] e dobbiamo valutare tutto quello che ci può unire; ignorare, rinnegare quanto ci può dividere; che bisogna dare al popolo un senso più vivo, più orgoglioso della sua patria, della sua storia». Insomma, singolare paradosso questo di una Chiesa in guerra con il mondo, che facendo esperienza del mondo in trincea, finì in larga parte per riconciliarsi con esso. Senza però dimenticare quanto accadde, finito il conflitto, a tanti seminaristi che lasciarono gli studi teologici o dovettero chiedere alla Santa Sede sanatorie per le irregolarità canoniche in cui potevano essere incorsi obbedendo ai loro ufficiali; e a tanti preti che rinunciarono al ministero, spontaneamente o spinti a farlo. Letteralmente cambiati dopo aver guardato in modo diverso alla vita e alla morte. Accadde a don Annibale Carletti al quale la notte del 14 marzo 1916 era toccato di ordinare «coscientemente di uccidere i nemici d’Italia», autore già nel 1919 della sintesi più completa del prete-reduce dall’inutile strage: «La guerra è passata come un uragano […] Spiritualmente che cosa si è perduto e che cosa si è salvato; chi è rimasto vittima e chi ha vinto? Parlo di sacerdoti-soldati. Una parte non ritorneranno più perché hanno fatto olocausto di sé sui campi di battaglia alla religione di Cristo e della Patria, […]. Altri furono travolti dalle passioni, accecati dalle loro libertà e hanno lasciato il sacerdozio con la stessa indifferenza con cui vi erano venuti […] Altri […] non hanno saputo conservarsi fedeli a tutti quegli obblighi morali e a tutte quelle leggi disciplinari che giudicavano indispensabili per il loro ministero. Questi [...], rivestiranno l’abito talare [...], e saranno i più obbedienti, i più ortodossi e i più intolleranti, ma anche i più dannosi al progressivo sviluppo dell’idea cristiana. Ma il loro passato si può conciliare ancora con le leggi della Chiesa?». E concludeva: «Poi ci sono quelli che si sono conservati puri, mondi e immacolati nello spirito e nella carne. […] Sono dei giovani che, ritornati […] desiderano lavorare con ardore per conquistare, non alle forme esteriori, ma allo spirito del cristianesimo, la società».Sì la Chiesa dentro la Storia, la Chiesa nel mondo. Anche Carletti abbandonò la tonaca. Gli scrisse don Mazzolari (il brano è tratto da Quasi una vita pubblicato dalle Edb nel ’79): «Tu la guerra l’hai vissuta in una maniera singolare, esperienze nuove devono essere passate sul tuo spirito, la tua fede, [...] e io comprendo chiaramente la tua crisi, che in fondo è la crisi di tutti i sacerdoti vivi, di tutti gli uomini, che hanno aperto occhi e cuore, in questi anni».