Agorà

Intervista. Minghi, la musica dell'anima

Andrea Pedrinelli mercoledì 12 ottobre 2016

 Il ’68 e il contrasto ideologia-fede; la canzone senza cui ora sarebbe “solo” grande autore e non storico cantautore: e poi ancora Anna Frank e le Beatitudini, il “trottolino amoroso”... Amedeo Minghi è una persona che ha molto da dire: in Italia è stato l’ultimo a creare un linguaggio d’autore personale, originale, compiuto e credibile: forse anche perché sa far canzoni dalla A alla Z, dalla composizione a incisione, produzione, arrangiamenti. Tutte faccende da ribadire, oggi che l’artista romano presenta (esce venerdì) il cofanetto sui cinquant’anni di una carriera di cui i primi dieci sono stati di gavetta, formativa assai. Il triplo La bussola e il cuore non è però celebrazione, bensì idea molto particolare per ripercorrere tutti i capisaldi di una poetica. Il primo Cd segna il rientro del Minghi cantautore dopo undici anni senza inediti, col sociale fra le pieghe del cantare l’uomo ( Gente sul confine) e riflessioni in musica pure spiazzanti ma di alto livello ( Come se fosse vento, Siamo questa musica, Il mondo senza di noi sul morire). Il secondo Cd parte da mature interpretazioni di hit quali 1950 o La vita mia, poi ripassa la spiritualità di Minghi rendendo disponibili i brani composti per l’anno della fede musicando Giovanni Paolo II e san Francesco, Padre Nostro e Vangelo. Col duetto da musical su Anna Frank chicca finale. Nel terzo Cd, infine, sorprese d’archivio: i provini de La breccia o La stella dello sperone, La ragione l’amore che divenne Farfalla per Mietta, bei pezzi stile Folkstudio (su tutti Nessuno, davvero ispirata) riemersi coi loro echi di licei e fabbriche dal passato di un artista tuttora, però, estremamente incisivo. Dove ha trovato la forza di ripartire dopo la tragica e improvvisa scomparsa di sua moglie Elena? «Certe cose per quanto terribili non fermano mestieri di anima, viene da scrivere anche di più: e lei non avrebbe mai acconsentito a un mio ritiro. Bisogna accettare la vita. Per le figlie, per il nipotino». Allora comunque ci disse che non sapeva se il suo rapporto con la musica sarebbe cambiato. È cambiato? «Sì. Il mio approccio paradossalmente ora è più lieve, meno denso. Non voglio imporre il mio dolore agli altri: io lo vivo come l’unico, ma so benissimo che non lo è. Quindi ho alleggerito il mio stile». Ma il primo pezzo del primo Cd è In una notte: la notte in cui sua moglie morì nel sonno al suo fianco. «Un’esigenza. Da dire ne avrei ancora, su quel dolore improvviso e lacerante dopo quarant’anni insieme. Mi ha cambiato la vita, abbiamo sempre dato un senso forte al sacramento del matrimonio. Da Elena dovevo, perlomeno, far ripartire la mia avventura musicale». In E viene il giorno si chiede che cosa la sua generazione lasci ai giovani: qual è la risposta? «Io ho vissuto il ’68. Bene, volevamo cambiare il mondo, ma l’abbiamo fatto in peggio. Abbiamo combattuto senza farcela. Ora, all’alba dei miei settant’anni, dico ai giovani di non imitarci, e di ricordarsi che politica è imparare a convivere». Nel secondo cd, la fede: paura di venir ghettizzato? «Ah, lo sono da tempo… Oggi molti artisti parlano di Dio perché “funziona”, io lo feci per la prima volta nel ’92 e si paga, a esprimere liberamente i valori». Già ne L’immenso del ’76 però cantava «L’immenso è Dio»: allora era già tanto forte, la sua fede? «No, quella era una visione poetica: fu l’incontro con Wojtyla, a risvegliare ciò che con l’ideologia si era assopito. Ho sempre percepito Gesù compagno di viaggio, però allora ero lontano dalla Chiesa». Qual è il centro della sua spiritualità? «Le Beatitudini: mi commuove cantarle. Mi piace però che questi brani siano tutti su figure rivoluzionarie per la storia, da Gesù a san Francesco a Wojtyla». E Anna Frank? Cosa l’ha spinta a cantarne? «È un sasso che lancio, sperando un giorno di fare un musical intero su di lei: fosse stata cristiana oggi sarebbe santa, la sua purezza era esemplare». Minghi sente di avere dei doveri, scrivendo testi? «Volenti o nolenti li abbiamo, parliamo a migliaia di persone. Mi dicono che io non faccio cose divertenti (ride, ndr) e un po’ di responsabilità quando scrivo la sento. Però, onestamente, scrivo per me: gli artisti sono egoisti, anche se comunicare è un dono». Il «trottolino amoroso», 1950… Condanne? «Ma no, anzi. Quando le canzoni non arrivano alla gente è una botta: penso a Su di me, disco per me meritevole ma ignorato. Il brano chiave della mia carriera? L’immenso: mi dicevano che ero complesso, che mettevo troppi accordi a testi difficili, poi è nato quel brano e ha sfondato in Europa. Così sono diventato un cantautore, poco prima di lasciare». Oggi di chi è la colpa, per la pochezza dei giovani? «Di multinazionali e talent. Con un Ennio Melis si facevano contratti tre anni più due. Nei primi vedevi dischi interi buttati nel cestino, prendevi porte in faccia, eri esaminato su ogni nota e virgola. Però poi nascevano Baglioni, Venditti, De Gregori…». Come andrà in tour partendo da questo triplo? «Dopo una presentazione il 5 dicembre al Brancaccio di Roma, da gennaio andrò per teatri con una band e ballerini, in un concerto- spettacolo pensato perché le canzoni vivano davvero. E Anna Frank ci sarà già».