Agorà

Il personaggio. Mingardi, il blues dipinto

ANDREA PEDRINELLI domenica 6 dicembre 2015

Se di questi tempi un artista non appare sempre in tv, viene catalogato come “finito”. L’ultimo disco di Andrea Mingardi, sul Natale, è del 2011: e di fronte al suddetto andazzo conta poco che l’artista bolognese sia stato antesignano in Italia di blues, funky, soul, canzone demenziale alta e persino rock. Per molti Mingardi è qualcuno “di ieri”. E invece sta per proporre un disco nuovo, un libro giallo e, soprattutto, è reduce da un trionfo come pittore.  La sua mostra di quadri dedicati alla vecchia Bologna è stata vista da migliaia di persone, molti dipinti sono stati acquistati e da essi prenderà pure le mosse l’immaginario di un film: sempre a firma Andrea Mingardi. Senza contare poi che sul tavolo di Mina e Celentano ci sono diversi suoi inediti, che lui auspica siano scelti per l’incisione come gli accadde – con ben otto brani – già per il disco minesco del 2006. Altro che artista “finito”, dunque. Malgrado la sua scelta di non mettersi in mostra e rispondere con ironia sorniona a chi gli dice che in fondo, uno come lui che ha costruito ampie porzioni di storia della canzone italiana, potrebbe vivere di rendita e pure arrabbiarsi dei troppi che attribuiscono ad altri le sue “prime volte” in Italia di cui sopra: blues in primis. «Ma no, la mia carriera è molto lunga e soddisfacente. Vero, me lo dicono spesso che non ho avuto quanto meritavo: e finirà che ci credo… Ma il “successo” per chi vive senza steccati arriva sempre dopo: che dice, sarà per questo che i discografici si informano spesso del mio check-up sanitario?». È vero che lei doveva fare il calciatore? «Portiere delle giovanili del Bologna sino all’Italia juniores. Poi il rock mi ha strappato dai pali». Peccato però che il suo gruppo degli esordi, il primo gruppo rock italiano, non abbia inciso nessun disco… «A fine anni Cinquanta quella musica ci permise di ribellarci a Buongiorno tristezza. Assieme al jazz, sensuale e intellettuale: ma più di Glenn Miller o Armstrong, fu il rock nero a colpirmi. Chuck Berry, Little Richard, musica nata dal blues. Però non avevamo l’idea della carriera. Vennero a Bologna a sentirci Baby Gate, cioè Mina, e il maestro De Vita: e offrirono un contratto, ma a Milano non ci andai». Quanto fu difficile nei ’70 fare blues vero da noi? «Era gioia, ci arrivai da Fats Domino e John Lee Hooker. Non so, avevo l’orologio avanti: in un Paese dove nessuna donna fa blues e ci sono voluti Pino Daniele e Zucchero per farlo, miscelato ad altro». Non le dà fastidio che attribuiscano proprio a Zucchero il merito di aver portato il blues qui? «Anni fa una radio fece un sondaggio sul miglior bluesman italiano: vinsi io ma sui giornali uscirono due righe. Forse mi è mancata la canzone che unisse immaginario, storia e supermercato. Però il blues per me è anima più testa, non è una canzone “che funziona”». E il demenziale? Anche lì l’hanno “scippata”… «Elio me l’ha riconosciuto, che il primo sono stato io. E io mi ispiravo a Zappa, denunce, non volgarità. Comunque Funky, funky…, ironia pura del ’77, in Brasile ha venduto cinquecentomila copie». Lei debuttò a Sanremo con Alessandro Bono, morto nel ’94 trentenne: dimenticato troppo in fretta? «Beh, mi ricordo i funerali di Mino Reitano: c’erano tutti quelli che lo prendevano in giro da vivo. Bono era dolce, con gusto nella scrittura e tanto da dire. Sapeva di non avere una voce da cantante puro: ma scriveva cose magnifiche, con una maturità superiore ai suoi anni. E però sì, lo dileggiavano». Si paga così tanto, in Italia, un talento “diverso”? «Se vige la politica del kleenex, usa e getta solo per vendere, per forza. Ma pensi quanti grandi pittori incompresi, presi per matti, abbandonati». Mina però la chiama spesso, a scriverle canzoni… «Ho mandato provini anche per il nuovo Cd con Celentano: speriamo. Mina è pazzesca, dice che io canto soul come vorrebbe fare lei. Scherziamo? Sa a memoria Ella Fitzgerald, Anita O’Day, Billie Holiday, Sarah Vaughan, e mette a frutto tale sapere». Lei si sente più autore o ancora cantautore, oggi? «Cantautore, pure cantando altri sull’esempio di Ray Charles: cantando riscriveva. Un mio nuovo Cd è in arrivo, stiamo preparandolo, penso sia roba forte». Intanto, i fasti della pittura: come diventa pittore? «Olio su legno, rivivo quanto mi ha segnato. Ho preso foto della vecchia Bologna e le ho tramutate in quadri, pure animandole di miei ricordi. In bianco e nero, perché narra meglio. E quei quadri sono flash di un film che sto per fare sulla storia di Bologna città dell’arte. Quindi sentirete parlare di me anche per l’arte che poi amo di più, il cinema». Ma Bologna ha ancora i fermenti di qualche anno fa? «I ragazzi d’oggi suonano meglio di noi: ma il mercato ha tolto la voglia di avere voce propria». Che per lei oggi è anche la scrittura, giusto? «Da tempo. Ora c’è un editore interessato al mio nuovo giallo-noir: cinematografico e d’anima e pancia come il blues. Per me le arti sono una cosa sola».

L'ARTISTA - BOLOGNA IN BIANCO E NEROBolognese classe ’40, Mingardi debutta da batterista e cantante dei Golden Rock Boys: negli anni ’70 è il primo bluesman italiano, con brani quali Datemi della musica. Coi Supercircus porta poi ai nostri lidi anche il funky e un genere satirico-demenziale in bolognese scevro però di volgarità: sfiora le grandi ribalte con Un boa nella canoa e Ti troverò, poi nel ’92 debutta a Sanremo con Alessandro Bono. Ha scritto per altri (molto per Mina) e per sé dischi di qualità come Sogno, 6- al duemila, Ciao rágaz, Mingardi canta Ray Charles, da affiancare agli storici Nessuno siam perfetti, ciascuno abbiamo i suoi difetti o Xa vut dalla vetta. Cofondatore della Nazionale cantanti, Mingardi è anche scrittore e nel 2012 attore de Il peggior Natale della mia vita: ma era già stato premiato a Venezia per Flipper, nell’82. Negli ultimi tempi si è dedicato pure a scultura e pittura, coi 35 dipinti di “Bologna in bianco e nero. I colori della memoria”.