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66° FESTIVAL DI CANNES. Migranti, storia senza fine

Alessandra De Luca sabato 25 maggio 2013
​Le storie del passato per riflettere sul presente, sulle le sfide di oggi e le contraddizioni della società contemporanea coniugando la classicità con la modernità. Arrivano in competizione a Cannes due film in costume, The Immigrant dell’americano James Gray, un habitué della Croisette, e Michael Kohlhaas di Arnaud Des Pallières, tratto dal racconto lungo di Henrich von Kleist, che a sua volta racconta una storia vera. Il primo film, interpretato da Marion Cotillard, Joaquin Phoenix e Jeremy Renner, racconta l’arrivo a New York di due sorelle polacche, Ewa e Magda, durante la grande ondata di migrazione dall’Europa Orientale nel 1921. Ma una volta sbarcate sulla famigerata Ellis Island, Magda viene messa in quarantena perché affetta da tubercolosi ed Ewa respinta perché  non c’è traccia gli zii che dovrebbero accoglierla. Disperata, la giovane donna accetta l’aiuto di Bruno, che la spinge però alla prostituzione, e neppure l’amore di un illusionista, che sembra regalare ad Ewa la fiducia in un futuro migliore, riuscirà ad evitare che il sogno americano si spenga ancora prima di nascere. Influenzato dalla lettura dell’operetta di Puccini Suor Angelica, e dalla visione di film come Diario di un curato di campagna di Bresson, La strada di Fellini e Il padrino parte II di Coppola, il film è un melodramma piuttosto convenzionale nella fattura che però rimanda inevitabilmente ai tragici eventi dei più moderni flussi migratori funestati da violenze e razzismo. «L’immigrazione – afferma il regista – è ciò che rende un Paese ricco e vitale e consente il necessario dinamismo sociale. È davvero ora di liberarci degli odiosi pregiudizi come quelli che all’epoca colpivano ad esempio italiani e irlandesi, giudicati sporchi stupidi e pigri». Più interessante il film di Des Pallières dove l’attore danese Mads Mikkelsen (Palma d’Oro lo scorso anno con Il sospetto) interpreta un mercante di cavalli che nella Francia del XVI secolo vive felice con la sua famiglia. Un giorno riceve un torto da un signorotto locale e da quel momento ingaggia contro di lui una guerra personale per ottenere giustizia. Come in un film western e ne I sette samurai di Kurosawa. Non gli farà cambiare idea neppure il religioso con il quale discute il suo caso (una sintesi tra Calvino e Lutero), che lo invita a rinunciare alla violenza e a rispettare l’autorità. Accetterà di deporre le armi solo quando verrà risarcito del torto subito, pagando con la vita i crimini nel frattempo commessi per raggiungere il proprio obiettivo. Un tema morale che fa riflettere su dove sia lecito spingersi per far sì che la giustizia e la verità trionfino. «Se il protagonista sia un eroe idealista, un rivoluzionario o addirittura un terrorista sarà il pubblico a deciderlo – dice il regista – ma ciò che mi ha più impressionato di questo racconto è il rigore di un uomo che dopo aver guadagnato potere accetta di rinunciarvi per un forte senso di onestà e dignità. Il suo sorriso alla fine restituisce la gioia e l’orgoglio per il risultato ottenuto, nonostante la morte stia per separarlo dalla sua amata figlia». «Kohlhaas è un uomo estremamente moderno e radicale – aggiunge Mikkelsen – crede nella giustizia, va fino in fondo per ottenerla, paga per ciò che ha fatto, ma è felice».