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INTERVISTA. Caillé: meglio conviviali che liberisti

Daniele Zappalà venerdì 5 luglio 2013
Nel 1973, uscì negli Stati Uniti il saggio Tools for conviviality, tradotto in Italia con il titolo La convivialità (Mondadori e poi Boroli), in cui Ivan Illich (1926-2002) formulava una critica radicale del "sovrasviluppo industriale". Il pensatore nato in Austria, poliglotta e cosmopolita, auspicava una transizione verso una "società conviviale", dispiegando analisi inusualmente trasversali rispetto agli schemi del nascente "ambientalismo" dell’epoca. Dopo essere finita lontano dai riflettori, la "convivialità" è adesso di ritorno. Nel 2011, un convegno a Tokyo dedicato ad Illich ha definitivamente convinto il sociologo francese Alain Caillé, fondatore del "movimento anti-utilitarista" (Mauss), che quell’eredità filosofica resta feconda per fronteggiare le quattro principali crisi in corso: morale, politica, economica ed ecologica. Riunendo 64 intellettuali, perlopiù europei ed americani (fra cui Edgar Morin, Susan George, Jean-Claude Guillebaud, Jean Pierre Dupuy), Caillé è così approdato alla stesura comune di un succinto ma denso Manifesto convivialista. Dichiarazione d’interdipendenza, appena pubblicato in Francia (Le Bord de l’eau). Professor Caillé, il manifesto nasce dunque nella scia delle riflessioni di Illich?«L’idea è nata sotto l’ombra di Illich. Per questo, mi è venuto subito in mente il termine riassuntivo "convivialismo". Tanti altri intellettuali l’hanno poi accettato, pur talora criticandolo in prima battuta. Ma raccogliamo pure l’eredità del francese André Gorz. In un certo senso, il manifesto celebra il quinto anniversario della morte di quest’ultimo e il decimo della morte di Illich». Illich e Gorz erano accesi detrattori di ogni filosofia politico-economica legata al mondo industriale. Per lei, le ideologie novecentesche si avviano dunque verso il tramonto?«Una delle conclusioni chiave del manifesto è in effetti che manchiamo oggi di una dottrina o di una filosofia politica adatta ai problemi della nostra epoca. Certo, le lotte politiche continuano ad invocare spesso l’eredità liberale accanto a quelle socialista, comunista o anarchica. Ma queste ideologie, per quanto fra loro divergenti, sono tutte accomunate almeno da un punto che oggi dobbiamo invece assolutamente superare: la convinzione che il problema principale dell’umanità è la scarsità materiale, ovvero il deficit di mezzi per soddisfare i bisogni materiali. Ammettere ciò implica l’imperativo della crescita e della prosperità materiale. Il resto verrà dopo, si è finora pensato. Ma in tal mondo, in realtà, chiudiamo ogni orizzonte futuro».    La speranza di una crescita senza limiti può condurre a nuove catastrofi?«Sì. E tutti gli autori del manifesto avvertono un senso d’emergenza. Proprio questo, a mio avviso, ha permesso di riunire intellettuali di vario orientamento, in particolare degli altermondisti accanto a dei cattolici». Come intendere il termine "convivialismo"?«È un termine che richiama vari significati affini. In Francia, fa pensare spesso a un termine introdotto da un celebre autore di gastronomia, Jean-Anthelme Brillat-Savarin, che interpretava la convivialità innanzitutto come l’arte di saper mangiare e bere in compagnia. Illich l’ha invece impiegato per criticare l’aspetto controproduttivo delle società moderne. Ma in ogni caso, il nocciolo del termine risale alla sua etimologia latina, cioè il saper vivere assieme. Ed oggi, per riprendere i termini di Marcel Mauss, è di bruciante centralità il saper vivere assieme senza massacrarsi. Le società, in particolare, devono sapersi scontrare senza massacrarsi».Come riassumerebbe il messaggio del manifesto?«Constatiamo innanzitutto che molti movimenti si oppongono già su scala planetaria alle maggiori derive del neoliberismo, ma restando spesso impotenti, poiché non riescono a pensare ciò che li accomuna. Cerchiamo dunque di formulare questo nucleo comune a tutti i movimenti impegnati per un mondo post-liberista. In secondo luogo, sosteniamo che oggi esistono già migliaia di soluzioni tecniche e scientifiche alternative, ma che manca soprattutto una filosofia politica. Sul piano della crescita reale, constatiamo che essa è ormai assente nei Paesi ricchi da lungo tempo, anche se la speculazione finanziaria e immobiliare continua a mascherare quest’evidenza. Non c’è vera crescita da almeno 20 anni. Per quanto riguarda i Paesi emergenti, invece, la crescita rischia di non durare a lungo, come mostra attualmente il caso del Brasile. In ogni caso, poi, questo modello di crescita è catastrofico sul piano ecologico. Dunque, non si potrà a lungo far poggiare le democrazie sull’aspirazione a una crescita permanente. Occorre inventare una società prospera anche se non c’è crescita, come sostiene l’economista inglese Tim Jackson. In generale, poi, il problema essenziale odierno dell’umanità è l’hybris, il desiderio infantile d’onnipotenza, il prometeismo e l’assenza di limiti tanto del capitalismo speculativo, quanto del genere umano nel suo insieme. Per questo, in fin dei conti, il problema centrale è d’ordine morale. Non a caso, le rivolte popolari prendono vieppiù di mira la corruzione delle élite». Ma al di là dei principi generali, quale pista concreta si può seguire?«A nostro avviso, occorre impegnarsi in una duplice lotta contro l’abiezione della miseria e contro l’abiezione della ricchezza illimitata. In ogni società civile e politica legittima, dovrebbe esistere un livello minimo di reddito garantito a tutti e un livello massimo di ricchezza consentita, quest’ultimo fino a livelli anche molto elevati, ma in ogni caso non illimitati. Al di là di certi livelli, chi è ricco esce dalla comune umanità e dalla comune socialità». Sono principi già noti a molte religioni...«Sì, penso che l’impegno sociale centrale di molte religioni consiste già nel lottare contro gli eccessi umani. Ma su questo punto, parlo soprattutto a titolo personale, data la grande varietà di orientamenti degli autori del manifesto. In ogni caso, è evidente che occorre un’alleanza fra coloro che credono nel Cielo e chi non vi crede».