Agorà

Dibattito. Medio Oriente Chi strumentalizza le fedi

Chiara Zappa mercoledì 27 luglio 2016
Dacca, Istanbul, Nizza. E ancora le vittime di Bruxelles come quelle di Tunisi, il Bataclan come il bar Pulse, a Orlando: l’attualità ci obbliga a una terribile contabilità di morte che sembra non doversi esaurire mai. La scia di terrore a matrice fondamentalista che sta insanguinando il mondo dà le vertigini e porta inevitabilmente argomenti all’interpretazione di chi, dai salotti tv ai think tank geopolitici, mette in relazione la violenza con un insanabile conflitto tra culture e religioni.La teoria dello scontro di civiltà, esposta da Samuel Huntington nel suo saggio del 1996 e poi diffusasi con stupefacente fortuna dal mondo accademico a quello dei media, è oggi alla base di tutte le letture più accreditate delle tensioni che attraversano il presente, le quali si auto-ammantano di motivazioni confessionali e affermazioni identitarie. «Ma cascare in questa trappola significa fare proprio il gioco dei terroristi»: ne è convinto Georges Corm, economista e storico libanese, consulente di diversi organismi internazionali (tra cui Unione Europea e Banca Mondiale), che ad analizzare le dinamiche dell’area mediterranea ha dedicato decenni di studi. Per l’eclettico intellettuale cristiano nato ad Alessandria nel 1940, ministro libanese delle Finanze dal 1998 al 2000, docente in varie università anche europee – attualmente alla Saint Joseph University di Beirut –, a cent’anni esatti dagli accordi di Sykes-Picot che spartirono tra Francia e Regno Unito le province arabe dell’impero ottomano, gli effetti nefasti della famosa «linea nella sabbia» che gettò le basi geopolitiche dell’odierno Medio Oriente restano evidenti nel caos endemico della regione. Un’instabilità che ha ben poco a che vedere con le presunte differenze irriducibili tra civiltà, come ha sostenuto in testi come Oriente Occidente. Il mito di una frattura (Vallecchi, 2003), Il mondo arabo in conflitto (Jaca Book, 2005), o il più recente Il nuovo governo del mondo (Vita e Pensiero, 2013). Ma è nel saggio Contro il conflitto di civiltà. Sul «ritorno del religioso» nei conflitti contemporanei del Medio Oriente, ora tradotto da Guerini e Associati (pp. 234, euro 19,50), che Corm si dedica in modo sistematico a confutare letture considerate troppo semplicistiche e "comode" di fenomeni dalla ben più profonda complessità storica, economica e politica.Lei cita alcuni eventi della storia recente che hanno effettivamente riportato la religione sulla scena globale: perché sostiene che siamo di fronte non a un «ritorno del religioso» bensì a un «ricorso al religioso» per fini strumentali?«Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo assistito all’emergere di Stati che pretendevano di essere portavoce di una religione: pensiamo al Pakistan, basato sull’islam, o a Israele, costituito sull’ebraismo, malgrado il fatto che i fondatori si sentissero laici. Ma anche all’Arabia Saudita, dove il sostegno degli Usa permise alla famiglia Saud in alleanza con la corrente wahhabita di creare un regno fondato sul radicalismo sunnita, la cui ricchezza dovuta al petrolio ha poi pesantemente influenzato le politiche nell’area. È la stessa logica che spiega l’addestramento da parte degli Usa di combattenti islamisti in funzione anti-sovietica in Afghanistan, che pose poi le basi di Al Qaeda: un frutto della strategia del consulente di Jimmy Carter per la sicurezza nazionale, Zbigniew Brzezinski, che puntava a strumentalizzare la religione contro il comunismo. Ecco allora il punto: in tutti questi casi, la fede viene chiamata in causa per essere messa al servizio di altri interessi».L’analisi politica oggi si concentra però su fattori come l’identità e la cultura, più che sulle cause profane dei conflitti...«Sebbene sia un dato di buon senso il fatto che le guerre provengano dall’ambizione umana – per l’accesso alle risorse, alle rotte strategiche, agli scambi economici internazionali – la cornice intellettuale fornita da Huntington, in sostanza una rivisitazione della vecchia tesi razzista del XIX secolo che vedeva la contrapposizione tra ariani e semiti, ha dato legittimazione a una serie di scelte geopolitiche, in primo luogo le invasioni statunitensi di Afghanistan e Iraq. In questo contesto, i princìpi del diritto internazionale sono ormai applicati in modo differente a seconda dell’identità confessionale dei diversi Stati e della loro relazione con le potenze occidentali».Per non parlare di chi usa la fede per mobilitare le masse…«Esatto. Con l’aggravante che, più essa viene utilizzata come legittimazione per atti di governo, interni o internazionali, meno i cittadini osano mettere in discussione tali atti. Si tratta di un metodo efficace per paralizzare lo spirito critico del popolo nei confronti del potere, in Occidente come in Medio Oriente. Dopo lo choc delle guerre mondiali nel Novecento, quando ci si scontrò drammaticamente con i limiti dei valori illuministi e marxisti, si è verificato uno spostamento verso il multiculturalismo: il concetto dell’uguaglianza di fronte alla legge è stato abbandonato a favore del "diritto ad essere diversi", come forma avanzata di democrazia in grado di assecondare le specificità etniche o religiose dei cittadini. Questo, tuttavia, spiana la strada a molte ambiguità. Ad esempio, secondo alcuni gli immigrati non hanno il dovere di integrarsi nei contesti di accoglienza, poiché bisogna permettere loro di affermare la propria identità. Ma è un concetto pericoloso».È ciò che lei definisce il rischio della comunitarizzazione del mondo: che cosa intende?«La storia dimostra che, quando le differenze di ogni singola comunità vengono organizzate politicamente all’interno di una società, si va incontro a tensioni permanenti: lo osserviamo in contesti che vanno dal Belgio (con i contrasti tra fiamminghi e valloni) all’Iran (con la fossilizzazione dell’identità sciita dopo la rivoluzione del ’79) e in modo eclatante nel mio Libano, dove vige una divisione anche istituzionale tra cristiani, musulmani e gruppi diversi che fanno riferimento all’islam. Un meccanismo che, più che tutelare le diversità, alla fine sembra favorire il divide et impera. Io sostengo per esperienza che, se da una parte è sacrosanto perorare i diritti delle minoranze, per esempio quelle oggi minacciate in Medio Oriente, dall’altro la cornice di uno Stato laico è indispensabile alla democrazia».