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Il compositore. James McMillan: «La musica? Spirituale e politica»

Pierachille Dolfini sabato 14 settembre 2019

Lo scozzese James MacMillan, compositore e direttore d’orchestra, è nato a Kilwinning nel 1959 / Marc Marnie

Definisce la sua musica «spirituale e politica». Perché spirituale è evidente, dato che da sempre James MacMillan, cattolico che non ha mia nascosto la sua fede, scrive musica sacra, per le grandi occasioni – da un Cantos sagrados a un European Requiem passando da una St. John Passion –, ma anche per le celebrazioni domenicali della sua parrocchia a Glasgow. Note che, dice, sono anche politiche perché il musicista scozzese, classe 1959, pensa che «il compositore debba avere un ruolo di primo piano all’interno di una comunità». Ruolo politico, appunto. Sir MacMillan oggi è a Milano per ricevere il Sigillo della città, riconoscimento a un autore che al capoluogo lombardo ha regalato molte prime esecuzioni della sua musica «diffusa in tutto il mondo grazie alla potenza del suo linguaggio espressivo ed immediato pur in una complessa articolazione di gesti e di riferimenti stilistici» come si legge nella motivazione del riconoscimento che gli sarà consegnato dall’assessore alla Cultura – e a sua volta compositore – Filippo Del Corno. «È una cosa grande per me sapere che una città come Milano, che ha una lunga e ricca storia musicale, mi abbia scelto per questo tributo. Ho diretto diverse mie partiture sul podio dei Pomeriggi musicali, sono stato in platea alle prime di mie pagine come Veni, Veni Emmanuel nel 1997 in Conservatorio, The prophecy al Teatro alla Scala nel 2001 e Raising sparks nel 2005 al Piccolo teatro. Ma non solo, ho ascoltato da spettatore lavori di compositori contemporanei e concerti con le grandi pagine classiche». La cerimonia di consegna del Sigillo della città stasera in Conservatorio, alle 21, prima del concerto – nel cartellone del festival MiTo – della Filarmonica di San Pietroburgo che, diretta da Ion Marin, insieme al Titano di Gustav Mahler proporrà in prima italiana Larghettodi Mac-Millan. «Una decina di minuti di musica dal carattere riflessivo – racconta il compositore – che ho scritto nel 2017 rimaneggiando il mio Miserere del 2009, un pezzo per coro che qui propongo in una versione per orchestra».

Una pagina, James MacMillan, che anche senza il testo cantato resta ispirata, resta musica sacra?

Credo che la musica, qualsiasi tipo di musica, sia una forma artistica molto spirituale e sono convinto che le persone che amano davvero la musica ne sappiano cogliere perfettamente il lato spirituale. Nello scrivere Larghetto for orchestra mi sono ispirato, facendo il processo contrario, in realtà, a quanto fatto da Samuel Barber che ha scritto un Agnus Dei rimaneggiando l’Adagio del suo Quartetto per archi: così la stessa musica restituita da formazioni diverse assume diversi colori e sfumature, ma mantiene la stessa ispirazione.

Ispirazione che, diceva, si ritrova in un brano di musica sacra, ma anche in una pagina che non si rifà a testi liturgici.

Sono convinto che tutte le persone, indipendentemente dal loro credo, riconoscano una profonda verità cioè che la musica, in particolare quella che chiamiamo classica o colta, con la sua ricchezza spirituale può toccare il cuore umano in un modo profondo: ecco perché ritengo che fare musica, comporre sia un’attività profondamente spirituale. Lo faccio da cattolico, che mette la sua fede in tutto ciò che fa nella vita. E in questo non sono solo. Lo hanno fatto grandi autori prima di me, penso ad Arvo Pärt, Henryk Górecki, John Tavener, ma non solo perché nel XX secolo ci sono stati molti compositori che hanno messo il sacro, in diverse forme, nelle loro partiture: Igor Stravinskij, Arnold Schönberg, Olivier Messiaen, Francis Poulenc nella loro musica hanno coniugato la modernità con una costante ricerca del sacro.

Come intende il suo ruolo di compositore?

Nel Regno Unito da sempre i musicisti ritengono che il loro compito sia quello di essere utili alla società. Un’attenzione che si tramanda di generazione in generazione nella convinzione che un compositore non debba soltanto nutrire i bisogni estetici e spirituali delle persone, ma giocare un ruolo di rilievo nella comunità e nella vita culturale della società. Mi colloco in questo solco e ho sempre guardato all’impegno messo in campo da autori come Peter Maxwell Davies, Benjamin Britten, Michael Tippet, Gustav Holst, Edward Elgar, Ralph Vaughan Williams che facendo musica volevano essere parte della società. E come alcuni di loro, penso a Davies e Britten, anch’io ho creato un mio festival per portare le persone nel mondo della musica e nel 2014 ho dato vita alla rassegna “The Cumnock Tryst”, che si svolge ogni anno in Ayrshire, la regione della Scozia dove sono nato.

Lei, autore di musica contemporanea, che rapporto ha con la tradizione?

La tradizione influenza il mio modo di fare musica, ma più in generale il mio modo di essere e di pensare perché inevitabilmente siamo il risultato della storia, delle persone che sono venute prima di noi, siamo il frutto del nostro percorso di vita, dalle conquiste sociali, ma anche artistiche delle generazioni precedenti. Così non possiamo non essere influenzati dalla musica delle generazioni passate nei confronti della quale ho grande rispetto. Viviamo in un momento storico in cui ci sono tanti stili ed estetiche e ciascuno di noi ha molte possibilità di trovare la propria cifra distintiva, certo è un lavoro complesso perché non dobbiamo dimenticare la tradizione e il passato pur facendo musica per il nostro presente.

Da cittadino britannico come sta vivendo il passaggio della Brexit?

In Scozia cinque anni fa abbiamo avuto un referendum sull’indipendenza per una secessione dal Regno Unito ed è stato un periodo molto divisivo, tossico, che ha spaccato famiglie e separato amici. Ero preoccupato che questo succedesse anche con il referendum sulla Brexit per questo non ho preso alcuna posizione pubblica e non ho detto nulla, pur avendo il mio pensiero critico sulla questione.

Profetico nel 2015 sembra essere stato il suo European Requiem.

Una pagina scritta prima del referendum del giugno del 2016 sulla Brexit, un canto funebre per quella che è sempre stata la mia idea di Europa: se uno pensa all’essenza di ciò che il Vecchio continente dovrebbe essere non può che concludere che l’Europa è morta. C’è sicuramente un elemento di cristianesimo in quella musica, quello della speranza, ma c’è anche quel pessimismo che a volte potrebbe essere una cosa buona perché i grandi disastri che ci sono stati nel nostro continente sono il frutto di “ottimismi” come il fascismo, il nazismo, il marxismo. E quindi essere un pessimista, per me, è prendere le distanze e distinguersi da questi comportamenti e da queste ideologie che se non vigiliamo rischiano di riemergere.