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Intervista. Matematica, l'altro esperanto

Daniele Zappalà sabato 7 dicembre 2013
La matematica è davvero pertinente per occuparsi di un mondo divenuto oggetto della scienza, dunque oggettivato, ma per sua natura non potrà mai esprimere fino in fondo ciò che è l’uomo, contrariamente alle ipotesi scientiste». A sostenerlo è il matematico e filosofo francese Olivier Rey, che in un vibrante saggio di ampio respiro appena tradotto in Italia, Itinerario dello smarrimento (Ares, pp. 320, euro 15,90), ripercorre le tappe che hanno condotto alle odierne derive scientiste. Per l’autore, docente alla Sorbona, chi difende l’assioma di una scienza onnisciente fa torto alla società e alla stessa scienza. Storicamente, l’idea di scienza è molto estesa. Eppure, oggi sembra prevalere ciò che è matematico nella scienza. È così?«Fra le scienze della natura, forse solo la fisica è autenticamente matematica. A partire da Galileo, la fisica si è fissata come scopo di aggiornare la comprensione della struttura matematica del mondo. La matematica non serve solo a capire il mondo, ma è la lingua stessa del mondo. Un fenomeno rientra nella fisica quando siamo riusciti a fornirne un modello matematico. Questo legame con la matematica è più debole nella chimica e ancor più nella biologia. Ma in queste ultime, ormai, la matematicità è presente almeno come ideale. Anche quando mancano le equazioni, esistono comunque schemi deterministi. Per semplificare: occorrono certe condizioni per ottenere certi fenomeni. Un po’ come quando diciamo ’è matematico!’, riferendoci spesso a questa matematicità allargata, fondata su meccanismi di causa-effetto».Lo sguardo critico verso ciò che “è matematico” pare oggi riservato agli specialisti. Una spia rivelatrice?«Esiste certamente un effetto d’intimidazione sui non specialisti, a differenza di quanto è avvenuto per secoli. A lungo, la scienza moderna si è mossa da posizioni filosofiche al centro del dibattito. Ma dall’Ottocento, la scienza ha permesso lo sviluppo di tecniche di un’efficacia e potenza straordinarie. Ha trasformato talmente il mondo da far dimenticare la sua stessa dimensione filosofica e metafisica, ovvero il dibattito su come concepire e abitare il mondo. Anche nelle università, scienza e filosofia sono state separate». Al contempo, il Novecento ha visto emergere importanti filosofi della scienza, come Karl Popper...«Si tratta di una riflessione molto importante, ma perlopiù epistemologica, ovvero sulle regole della scienza, più che sulla scienza nel rapporto profondo fra l’uomo e il mondo. Popper, per esempio, definisce i criteri per distinguere ciò che è scientifico. E anche chi s’interroga sull’etica scientifica o sui suoi effetti sociali, tende ad omettere la scienza come impresa filosofica. Galileo e Cartesio erano ancora ben consapevoli di aver scelto un’opzione filosofica. Ma venendo al Novecento, sono colpito dal fatto che gli enormi interrogativi filosofici aperti dalla fisica quantistica restino praticamente riservati agli specialisti. Eppure, se fosse considerata sul serio filosoficamente, la fisica quantistica potrebbe ricondurci a Kant e alla distinzione fra cosa in sé e fenomeno. Ma ciò disturberebbe moltissimo tanti assunti scientisti». Si può parlare di una certa amnesia?«L’atteggiamento della scienza moderna, cioè l’oggettivazione del mondo, è in gran parte naturale, essendo un prolungamento di ciò che ci permette ogni giorno di muoverci e agire. Ma si dimentica troppo spesso che quest’oggettivazione è compiuta da un soggetto. E la tara principale dello scientismo sta nel credere di poter oggettivare il mondo fino in fondo, esseri umani compresi, dimenticando il ruolo e la posizione dell’uomo. È un errore filosofico che Cartesio non commetteva, dato che per lui il mondo era innanzitutto pensato da un soggetto, prioritario nell’impresa di conoscenza. Ora, se nell’uomo vi sono aspetti oggettivabili, molto altro resterà sempre al di fuori». Per la scienza, nel senso generale di comprensione del mondo, intravede rischi?«Innanzitutto, quello di emarginare vieppiù i campi non oggettivabili e matematizzabili. Basti pensare, per fare un semplice esempio, alle sensazioni diverse dalla vista e dall’udito, così centrali nel nostro rapporto con il mondo, ma trascurate dalla scienza ufficiale. In effetti, in questi ambiti, è molto difficile dissociare fenomeno fisico e sensazione intima».  Dopo Hiroshima e altri orrori, stiamo almeno uscendo dal culto assoluto del progresso tecnico?«Rispetto all’Ottocento, pochi credono ormai in una tecnoscienza dispensatrice universale del bene. E questa disillusione ha forse segnato la fine della modernità. Ma il punto è che al contempo viviamo più che mai in un mondo modellato dalla tecnoscienza».Agli albori, la scienza moderna fu ispirata pure dalla fede. Cos’è successo dopo?«Per Cartesio, abitato dalla parabola dei talenti, l’uomo deve dominare la natura, ma solo per realizzare la vocazione di creatura divina. Deve amministrare la natura in nome del Creatore. In seguito, si è smarrita la seconda parte della lezione cartesiana. Nella tecnoscienza, si è diffusa una sorta di visione gnostica che non riconosce più nessuna dignità alla materia e alla natura. Per questo, occorre sottometterle. In teoria, la partita del nostro rapporto con il mondo resta sempre aperta, quando riusciamo a cogliere l’intima natura filosofica della scienza. A livello letterario, l’ha fatto magnificamente un genio come Melville. Il capitano Achab, in Moby Dick, può essere ben visto come emblema dell’approccio gnostico prevalente nella tecnoscienza ottocentesca e spesso anche successiva».