Agorà

La mostra a Firenze. Arturo Martini, la scultura crea lo spazio

Maurizio Cecchetti venerdì 27 agosto 2021

La «Pisana» di Arturo Martini al Museo del Novecento di Firenze

«Ogni seme... ha un certo spazio virtuale intorno a sé. La scultura dovrà saper rappresentare questo spazio». Corollario: «La forma non è mai un solido ma un vuoto che lo contiene». Questa idea di Arturo Martini, nella sua apparente semplicità, ma in realtà per l’impegnativa scommessa che gioca con chi osserva le sue sculture, è in certo modo una “religione”. Ne parlerà continuamente. Nei Colloqui che ebbe con Gino Scarpa ribadisce: «La scultura consiste nei vuoti, in tutto quello che non c’è», e ancora: «Lavorerò per volumi vuoti anziché pieni, i quali sono liberi dell’immagine, che è sempre una terza persona che ti domina. Non posso sbagliare: lavorerò sull’assoluto, l’oscurità».

Rileggendo la storia di un volumetto mitico di Martini, Contemplazioni, che uscì in prima edizione nel 1918, e ha visto poi varie ristampe anche da Scheiwiller nel 1967, Maria Gioia Tavoni, qualche anno fa, in un elegante album intitolato Riproporre il “silenzio” per le “Contemplazioni” di Arturo Martini (edito dalla faentina Fratelli Lega, che fu anche la tipografia dell’edizione princeps) insegue l’ispirazione che venne all’artista per quel particolarissimo libretto fatto di segni astratti e di “pieni e vuoti” – «liber mutus, composto di sole immagini – che, ha scritto Pasquale Di Palmo – costituisce uno dei primi esempi di libro d’artista» –, e la trova nell’opera del mistico fiammingo Ruysbroeck, quando in un capitolo dell’Ornamento delle nozze spirituali, intitolato proprio come il volumetto di Martini, scrive che «la contemplazione è un’ignoranza illuminata» e aggiunge: «l’oggetto del desiderio non può essere né abbandonato né afferrato. Abbandonarlo è cosa intollerabile, conservarlo è impossibile. La parola non può descriverlo: il silenzio stesso non ha tanta forza da poterlo stringere fra le sue mani». La prospettiva mistica, infine, è chiarita da questa ultima riflessione: «Ecco la morte, l’eccesso della trascendenza e il dissolvimento della sublimità, nell’eterno inesprimibile».

E Martini nel brano “Il trucco di Michelangelo”, compreso nella Scultura lingua morta e altri scritti, parlando della quarta dimensione spiega: «sarà finalmente il raggiungimento di quel “vuoto” purificatore – della goethiana “regione delle Madri”, se si vuole – dove le altre arti hanno trovato nuova vitalità. Solo così il mondo degli oggetti finirà per ricomparire nel mondo dello spirito». Il ritorno nel grembo materno (la regione delle Madri) è la più infida tentazione della morte: rendere desiderabile la regressione nell’origine (il filosofo spagnolo Félix Duque negli anni Novanta aveva dedicato al tema il saggio Il fiore nero, dove la tensione alla morte come “purificazione” era vista come seduzione satanica moderna). Ma in Martini quel desiderio è combattuto, perché amore e odio per il materno convivono in lui fino alla malinconia, e muovono la azione plastica. Carnale e protesa alla più astratta sublimazione, questa scultura certamente aspira a stare e a rivelare l’infinito – come nota Sergio Risaliti nel testo introduttivo alla mostra Arturo Martini a Firenze, in corso al Museo del Novecento a cura di Lucia Mannini –, ma ne soffrirebbe e perderebbe la sua tragicità se venisse ridotta a una sorta di catarismo estetico, come quando, scrive il critico, «il corpo della Pisana è presentato senza vergogna e pudore» in tutta la sua nudità, ma dove «nessuno attenta alla sua condizione di quieta e feconda sensualità» perché tutto converge «a generare un effetto di levitazione».

Mi ricorda la pruderie con cui molti, ancora oggi, parlano dello sguardo di Degas sulle donne. È come non rendersi conto che lo sguardo che esibisce il corpo di quelle donne in tutta franchezza, nasce da una castità del cuore, dallo struggente incanto che preserva la funzione scopica da ogni caduta nel prosaico. Altra parola, questa, evocata da Risaliti quando pone in relazione la Pisana (o L’attesa) con la nostra condizione: «La vita sembra infusa in quelle forme, ma una vita più duratura e meno prosaica, vile, materialista, volgare della nostra». È proprio così, ma paradossalmente all’inverso, non per una riduzione al “puro”, bensì per una elevazione dell’“impuro” che rimane preso nella trasformazione verso la forma del “corpo glorioso”. Martini – citato da Risaliti – parlò «dell’inettitudine dell’albero che nel nascere, nel crescere è sempre perfetto». Strana congiuntura, allora, quella che nello stesso momento presenta a Firenze, per l’anno dantesco, il grande Abete di Giuseppe Penone, artista che anni fa paragonai a un monaco dendrita assiso sulla sua scultura...

La mostra, dunque, è dedicata al soggiorno fiorentino di Martini, quando per alcuni mesi nel 1931 lavorò a opere che trovarono quasi subito posto in collezioni importanti: anzitutto, in casa dell’ingegnere navale Alberto Della Ragione che, di lì a poco, frequentando le maggiori gallerie, acquisì anche dipinti di De Chirico, Sironi, De Pisis. Di Martini entrarono nella collezione Della Ragione Le collegiali, Il nudino sdraiato, la Pisana e L’attesa o Susanna e altre ancora, fra cui un quadro assai interessante, Risveglio, che anticipa forse il momento di temporanea perdita di fiducia dell’artista verso la scultura. Queste opere vennero poi donate nel 1970 a Firenze e sono uno dei punti focali del Museo.

A. Martini, «Risveglio» (1939-’40 c., olio su tela) - -

A questo nucleo si affianca una indagine, anche con documenti fotografici e cartacei, sul sodalizio che legò Martini al poeta Roberto Papi nel 1931, quando fu ospite dei Contini Bonacossi a Villa Fasola vicino ad Arcetri. Papi – marito di Vittorina Contini Bonaccossi – ebbe l’idea di una mostra congiunta dello scultore con i dipinti di Primo Conti, che si tenne poi l’anno dopo nella neonata Galleria Luigi Bellini. Martini presentava Donna al sole e sedici sculture spedite da Vado Ligure (alcune entrarono nella collezione Contini Bonacossi). All’inaugurazione della mostra c’era anche il compositore Mario Castelnuovo Tedesco che si fece incantare dalla scultura di Ofelia (tema che Martini fino al 1933 riprese ben cinque volte), qui esposta. Fuggito dall’Italia nel 1939 perché ebreo, e approdato in America, dell’Ofelia si persero un po’ le tracce, ma nel 1961 Castelnuovo Tedesco si mostra in una foto accanto all’opera, che dopo la sua morte resterà a lungo in America, e ora viene esposta a Firenze per questa rassegna.

A. Martini, «L’attesa» (1931, gesso patinato) - -

La retrospettiva indaga quindi una fase importante di Martini che dalle opere in terracotta (col pensiero agli etruschi) lo vedrà poi spesso a Carrara per reperire il marmo che impiegherà in molta della sua scultura maggiore. In realtà, il genio di Martini opera in ogni dimensione: dalla scultura che si può tenere quasi nel cavo della mano (come quei dolci che il padre cuoceva per la sagra di San Martino e che furono per lui un imprinting plastico) al monumento che innalza la statura umana nello spazio pubblico e sui muri delle architetture. A muoverlo è quella sapienza profonda che gli fece notare, a colloquio con Gino Scarpa, che gli egizi «della bellezza non si sono mai occupati... Riduci la Venere di Milo a venti centimetri, fa ridere. Lo Scriba egizio nelle stesse proporzioni resta di venti metri». È questione solo di intensità e sentimento plastico. Per Martini la scultura, nel suo nucleo, «è vuota» e chi ne possiede la legge può fare un capolavoro tanto in venti centimetri quanto in tre metri di spazio.