Agorà

Tratti di memoria e di verità: le “Matrici” di Cresci

Giuseppe Matarazzo mercoledì 28 dicembre 2022

Le fotografie sono disegni di luce. E cosa resta delle fotografie se togliamo… la luce, se ci fermiamo all’essenzialità del negativo, delle linee, delle forme? Ecco i disegni, gli scaraboti alla maniera di Canaletto. Ma se per il pittore del XVIII secolo erano gli schizzi preparatori dei lavori pittorici, quello che propone Mario Cresci è un processo opposto: sono le immagini che si fanno segni. Il disegno di luce ripercorso con la china, come a ripassare, riscrivere, riappropriarsi di un lavoro immortalato anni prima con la macchina fotografica e che rivive ora fra linee e segni di una memoria che non dimentica e si fa attuale. Ottanta disegni come gli anni di Cresci, compiuti quest’anno, in un’era – per sua ammissione – 8.0. Una scelta originale e intima di ripercorrere gli anni e i suoi lavori. Matrici, questo il titolo del libro (edito da Mimesis, nella collana “Sguardi e visioni”, pagine 214, euro 18,00) che li raccoglie con testi narranti e QR code che rimandano alle fotografie originali. L’analogico e il digitale. Immagini rilette con la visione e la saggezza di oggi, e con la genialità sempre costante che attraversa il “vedere” dell’artista di Chiavari. Fotografo, visual designer, docente al prestigioso Isia di Urbino. Consapevole che «la fotografia per me – ammette l’artista – non è mai stata un linguaggio esclusivo, bensì un atto da fondere con altri, più legati all’introspezione: il disegnare, il camminare o il guardare senza fotografare». È un esercizio meraviglioso allora quello che propone Cresci per indagare sull’«incertezza del vero».

«Quando una fotografia non è più solo una fotografia? Quando un’immagine non è più soltanto quella? Quando un segno non è più solo una traccia? Quando una parola non ha più solo un significato? Per rispondere a tutto ciò, basterebbe spostarsi all’origine di ognuna», scrive e pungola Stefano Raimondi, curatore del volume. Ed ecco le matrici. «Ognuna di esse è il decanto di un pensiero, di un’intuizione. È la sedimentazione di un oggetto, di un paesaggio, di un passaggio, capace di orientarci perché rappresenta un inizio, un incominciamento, in grado di condurci “altrove”, con la certezza che inizi tutto da lì».

Cresci ci conduce pagina dopo pagina lungo i suoi scatti più noti, con occhi diversi. Lungo linee convergenti, piani inclinati, chiari-scuri, onde. Immagini per «prendersi il tempo», come nello scatto/schizzo di Matera, 1972: «Un po’ di cielo in Terra e un po’ di Terra in cielo». Per usare la fotografia come «un taccuino di appunti analogo a quello dei viaggiatori del Grand Tour». Un viaggio che in Sicilia, seguendo Vincenzo Consolo, lo porta nel “ Retablo”, «il più possibile dentro a quello che ogni giorno incontravo, chiudendo spesso gli occhi sulle ferite inflitte dall’uomo alla natura e all’ambiente».

Segni migranti #06, Giardini Naxos, 2014 - © Mario Cresci_Mimesis

Sempre in Sicilia è l’attualità a colpire Cresci: « La notizia del naufragio del 3 ottobre 2013 irruppe nel nostro clima vacanziero con tutta la forza di un non-senso: tanti morti in tempo di pace nel mare azzurro di Lampedusa. Mi sentii impotente di fronte a quel dramma che stava emergendo in tutta la sua gravità dai giornali del giorno dopo: trecentosessantotto morti, venti dispersi, una cruda sequenza di numeri per la cronaca, ma ogni numero una persona, un padre, una madre un figlio. Dopo una giornata di indecisione prevalse la forte volontà di non essere solo spettatore passivo. Così, come autore decisi per un’azione performativa sulla spiaggia di Giardini Naxos in località Sirina, dove il treno entra nella galleria, sotto Taormina, e la massicciata della ferrovia segna il confine della spiaggia di ghiaia disseminata di blocchi di lava nera. Presi con me – racconta Cresci – due secchi di tempra bianca, un grande pennello e tanta ansia di fare di segnare a uno a uno quei massi come fossero stati dei corpi, i corpi di Lampedusa depositi dalle onde: segnarli quasi a toglierli dall’anonimato di una morte collettiva. Dopo molte ore di lavoro senza sosta, guardai tutti i segni bianchi prendere la forma di un volo di gabbiani, la liberazione di quei corpi verso una dimensione spirituale. Dopo alcuni giorni, il mare ha cancellato lentamente i segni bianchi dai blocchi di lava, ma non dalla mia memoria».

Quegli schizzi di gabbiani, sembrano ora dei cuori stilizzati. Che volano. E che arrivano ai nostri di cuori. Alla radice. O alla matrice di quello che siamo. L’essenziale che sta in poche, semplici, linee.

Una foto e 729 parole.