Agorà

Il caso. Marcos-Paz, amici di penna

LUCIA CAPUZZI martedì 2 febbraio 2016
«Una parte di me lo applaude: sono sane l’insolenza e la mancanza di rispetto». Quando Octavio Paz scrisse questa frase, nel 1996, la sinistra messicana sussultò incredula. E la destra ultraliberale attribuì «l’infelice boutade» a una specie di stravaganza senile. Che cos’altro poteva essere altrimenti tale attestato di stima per il leader dell’insurrezione del Chiapas, il Subcomandante Marcos, da parte del poeta-fustigatore della violenza guerrigliera latinoamericana, ostile al dogmatismo comunista come all’autoritarismo sovietico? Una posizione che aveva portato il Nobel per la Letteratura a distanziarsi progressivamente dalla sinistra, abbracciata in gioventù, per accostarsi al pensiero liberale. Perché allora questo «tuffo nel passato»? Pochi compresero che «vi era un processo di mutua identificazione tra il poeta laureato, antico rivoluzionario, e il giovane rivoluzionario che cercava di essere poeta», dice ad Avvenire Jorge Volpi, scrittore e autore del saggio La guerra y las palabras (Libr-e) in cui analizza il controverso rapporto tra Marcos e Octavio Paz. E vi legge, in controluce, l’anticipazione di nuove categorie per leggere problemi da sempre irrisolti e quanto mai attuali. In Messico e del mondo. Per questo, la sollevazione della 'periferia Chiapas', dove il 15 febbraio si recherà papa Francesco, resta uno dei grandi snodi della contemporaneità. Il 31 dicembre 1993, il Messico si addormentò sognando il 'progresso'. Il giorno successivo sarebbe entrato in vigore il 'Trattato di libero scambio' con Usa e Canada. Il Paese (la retorica governativa lo ripeteva) procedeva ad ampi passi verso un futuro da «primo mondo». Riappropriandosi, così, di quel diritto conferitogli dalla geografia: alla fine, il latino Messico sta in Nord America. Quella notte, però, il remoto e dimenticato Chiapas, tagliato fuori dalla modernità e condannato a un arcaico sistema di sfruttamento, aveva preparato il colpo di scena. Quando il resto del Paese si svegliò, gli indioschapanechi si erano sollevati in armi per denunciare condizioni brutali di diseguaglianza e miseria. Se la rivolta riuscì a catapultare la questione indigena sulla ribalta nazionale e internazionale non fu per i dodici giorni in cui gli incappucciati del-l’Ejercito zapatista de liberación nacional (Ezln) tennero in scacco i militari prima di tornare nella Selva. Bensì per la scelta della dirigenza zapatista di sostituire quasi del tutto il fucile con la penna: la sollevazione causò qualche decina di vittime anche se il numero è controverso. Certo, la mediazione della Chiesa e dell’allora vescovo di San Cristóbal, Samuel Ruiz, fu fondamentale per evitare il bagno di sangue e avviare un dialogo col governo. Fin dall’inizio, però, i guerriglieri dell’Ezln diedero maggiore importanza alla comunicazione che alla strategia bellica. Naturale, dunque, l’interesse e, spesso, la fascinazione degli intellettuali messicani per questo 'imprevedibile' movimento e il suo carismatico leader, il Subcomandante Marcos. Quest’ultimo, dai tratti poco indigeni, ben visibili nonostante il passamontagna, era dotato di una prosa pungente, ricca di humor, metafore e utopia. Rafael Guillén (questo, secondo le autorità, il vero nome di Marcos) «creò un personaggio politico che era anche un personaggio letterario», racconta Volpi. Da qui la sua irresistibilità per la sinistra intellettuale mondiale, da Gabriel García Márquez a José Saramago a Manuel Vasquez Montalbán. Imprevedibilmente, però, Rafael Guillén riuscì a 'sedurre' anche l’insospettabile Octavio Paz, feroce oppositore della lotta armata. Marcos, a differenza della sinistra messicana che lo aveva scelto come principale bersaglio per la sua vicinanza al liberalismo, non nascondeva l’ammirazione per le opere del Nobel. «Nel 1994, in realtà, il poeta aveva cominciato a vedere il liberalismo trasformarsi in neoliberismo e a distanziarsene, per tornare al socialismo di gioventù», afferma Volpi. A questo punto dell’esperienza umana e politica del Nobel avvenne l’incontro con Marcos. «Come primo impulso, 'l’uomo col passamontagna' scatenò in Paz un rifiuto viscerale. Lo considerò l’ennesimo caudillo rivoluzionario partorito dalla società latinoamericana », spiega Volpi. Il tono dei primi articoli di Paz sul Chiapas, pubblicati su La Jornada e Vuelta, nei giorni caldi dell’insurrezione, è duro. «Pian piano, però, il Nobel scoprì lo stile originale dei proclami di Marcos, il suo idealismo sincero, la sensibilità con cui esprimeva i sentimenti degli indigeni. E questo gli ricordò quando lui stesso, negli anni Trenta, più o meno all’età del Subcomandante, andò in Yucatan a lavorare con gli indios – continua Volpi –. Si verificò un’identificazione personale più che ideologica: a conquistare il poeta non fu la guerriglia ma la prosa di Marcos e la sua vocazione per il mondo indigeno». Paz non solo moderò le critiche verso il Subcomandante ma arrivò anche a elogiarne lo stile letterario.  «Un fatto inedito: non lo faceva mai con gli altri scrittori», sottolinea Volpi. «L’eloquente lettera che il Subcomandante Marcos ha inviato a vari giornali, pur venendo da chi ha scelto una strada che disapprovo, mi ha davvero commosso: non sono loro (gli indios, ndr), ma noi a dover chiedere perdono », scrisse il Nobel, anticipando, proprio come aveva fatto nella denuncia ai crimini di Stalin dagli anni Quaranta, il grande tema degli ultimi nello scenario post Guerra Fredda. Gli indios e i loro diritti negati erano, allo sguardo acuto di Paz, l’emblema dei tanti, troppi esclusi dall’economia ultraliberista. Le stesse voci che avevano spinto il giovane poeta a prendere posizione contro l’ingiustizia, riemergevano, ancora inascoltate. Da allora, sarebbe iniziata una relazione 'tormentata', a volte aspra, sempre intensa, tra il Nobel e 'l’incappucciato'. Che sarebbe proseguita fino alla morte del primo, nel 1998. Due anni dopo, il Subcomandante gli regalò un lapidario epitaffio: «Octavio Paz, eccellente poeta e saggista, il più grande intellettuale di destra degli ultimi anni». In realtà, come ribadisce Volpi, Paz non è mai stato un intellettuale di destra. «Nel fondo è sempre rimasto un socialista democratico. Come dimostra la sua poesia, in cui la solidarietà prevale sulla solitudine del consumatore. Un uomo dal coraggioso senso critico che l’ha messo in guardia dalle tentazioni dogmatiche e autoritarie. Da chiunque provenissero. Anche da se stesso».