Agorà

IL PERSONAGGIO. Mancini: «Torno presto e più forte»

Massimiliano Castellani domenica 12 luglio 2009
È l’allenatore italiano più vin­cente delle ultime stagioni e for­se anche il più ricco “disoccu­pato” in circolazione. Con l’Inter ha vinto sette tituli in quattro anni (tra i quali 2 scudetti in campo, più un 3° assegnato d’ufficio) come direbbe il suo “speciale” successore Mourinho e solo per restare fermo, il presiden­te Massimo Moratti dovrebbe anco­ra versargli 6 milioni di euro fino al 2012. Ma è dal pomeriggio delle bef­fe dell’8 giugno scorso che non alle­na: 13 mesi, 400 giorni senza una pan­china. È il caso di citare il poeta Attilio Ber­tolucci: “Assenza più acuta presen­za”... «È la prima volta, negli ultimi trent’an­ni, che mi capita di fare una vacanza più lunga di un mese. Ho riscoperto il gusto di andare in bicicletta e di de­dicarmi a tempo pieno a tutti gli sport, però la smania di tornare è comin­ciata da un pezzo...». In tutto questo tempo c’è una cosa del calcio che non gli è mancata? «Le polemiche, la strumentalizzazio­ne gratuita per ogni frase che dico e che viene sempre usata per mettermi contro qualcuno. Nel chiacchiericcio, spesso si perde di vista quello che è l’elemento più importante, e cioè l’uomo». Il calcio l’ha fatto diventare uomo in fretta? «A 13 anni ero già fuori di casa. Mia madre non voleva che lasciassi Jesi per andare al Bologna, papà invece aveva capito che il calcio era il mio fu­turo. Oggi, da padre, posso dire che ai miei figli non avrei permesso di an­dare via di casa a quell’età». Si ricorda le prime magie del Manci­ni “bimbo prodigio”? «All’oratorio di San Sebastiano, sotto casa. I primi gol li ho segnati al cam­petto dell’Aurora davanti agli occhi del parroco, Don Roberto». Gol ed esordio in A, a 16 anni, “bene­detti” dal cielo… «Dio mi è sempre stato vicino, mi ha indicato le strade e le compagnie giu­ste. Al resto hanno pensato i miei ge­nitori che mi hanno insegnato il ri­spetto per gli altri e soprattutto a non provare mai invidia, questa credo sia la vera peste odierna». E nel mondo del calcio chi l’ha gui­dato? «A Bologna ho avuto la fortuna di tro­vare un consigliere straordinario co­me Paolo Borea che poi mi ha porta­to alla Samp. Lui è molto più di un di­rettore sportivo, un signore vero, non se ne trovano più nel nostro mondo». Giudizio che vale anche per il presi­dente della sua Samp, Paolo Manto­vani? «A volte penso che uno come Manto­vani non sia mai esistito. È stato un so­gno, un uomo troppo grande per es­sere vero. Parlava una volta l’anno, ma quando apriva bocca era fulminan­te, gli bastavano due parole per arri­vare al cuore dei giocatori. Oggi i pre­sidenti invece non stanno mai zitti, fanno interviste ogni tre giorni. E per dire cosa?... Creano solo confusione». Allude a Berlusconi che lei ha detto: “Ora al Milan farà la formazione an­che a Leonardo...”? «Quella era una battuta - sorride - . Io posso parlare solo di Moratti e qual­che volta ci ha provato anche lui a far­mi la formazione, magari spingendo per mandare in campo qualche gio­catore che gli stava più a cuore. Ma non c’è riuscito, anche perché penso che non sia giusto che un presidente interferisca sulle scelte tecniche. Que­sto è uno dei mali peggiori del nostro calcio».L’ingerenza dei vertici è davvero co­sì deleteria? «Le gerarchie: presidente, ds, respon­sabile area tecnica, team manager, qui da noi non fanno altro che com­plicare tutto e alimentare le pressio­ni. La mancanza di chiarezza e tra­sparenza nelle decisioni, unita a una cultura sportiva sempre più scarsa e agli stadi più brutti d’Europa, hanno messo in crisi il calcio italiano. Siamo in uno stato di inferiorità evidente ri­spetto a quello inglese e spagnolo». Ci sta dicendo che è un sistema da rivedere in toto, ma almeno siamo fuori da Calciopoli? «Penso e spero di sì, anche se le mie lamentele contro gli “arbitri sospetti” mi pare che non erano tanto distan­ti dalla realtà…». La realtà di oggi è ancora fatta di sti­pendi gonfiati e giocatori acquistati per 94 milioni di euro… «Sono cifre eccessive, ma tutto nel cal­cio moderno è eccessivo. Quando ho cominciato a giocare c’era una tele­camera in campo, adesso sono cen­to e non si fischia l’inizio di una par­tita se prima i club non hanno siste­mato i contratti dei diritti televisivi». Ai suoi figli Filippo e Andrea che han­no intrapreso questa strada (giocano nel Monza) cosa ha detto?«Cerco di difenderli dai paragoni in­gombranti con un padre che si chia­ma Roberto Mancini. Finché vorran­no si divertano nel fare sport che aiu­ta a rimanere sani fisicamente e nel­lo spirito. Gli auguro di essere felici e che si sentano realizzati prima di tut­to come uomini». Lei una volta ha detto che Macina al Bologna era molto più forte di lei, co­me mai si è perso? «Macina è stato il miglior talento del­la mia generazione, ma gli piaceva an­dare in discoteca, giocare a carte e ai cavalli. Il talento a volte non basta se non ci metti la testa e la giusta dose di sacrificio». A proposito di talenti: Ibrahimovic e Balotelli non sorridono più quando fanno gol e minacciano continua­mente di fuggire dall’Italia?«Ibra forse dopo aver vinto tutto ne­gli ultimi tre anni ora sente l’esigen­za di andare a fare un’altra esperien­za. Con me Balotelli ha esordito a 17 anni ed è sempre stato sereno e ri­spettoso. Mi fa male sentire certi co­ri e quell’atteggiamento di intolle­ranza nei suoi confronti, ma del resto viviamo in un Paese in cui si è inne­scata la paura del “diverso” e questa negli stadi è amplificata». Mancini è stato uno degli ultimi nu­meri “10”, ci dia una definizione di questo ruolo. E soprattutto, esistono ancora in serie A? «Il “10” è quel giocatore che spiazza tutti con una giocata di cui forse nep­pure lui ha piena consapevolezza. In Italia ne è rimasto soltanto uno, Fran­cesco Totti». Cassano, il suo erede alla Samp, ri­schia di diventare un “genio incom­preso” in azzurro come lei? «Cassano paga gli errori del passato. Ma Lippi penso sappia bene che un giocatore come Antonio con il tempo è maturato e si è ravveduto, quindi se lo chiama in Nazionale può solo tor­nargli utile». Chi è in questo momento il miglior allenatore al mondo?«Non esiste. Invece esiste il più vin­cente in un determinato momento che non è necessariamente quello che porta a casa coppe o scudetti, ma piuttosto è un tecnico capace di dare un’impostazione a un gruppo e di ot­tenere risultati pur non avendo a di­sposizione undici campioni. Il tecni­co perfetto non c’è, di perfetto c’è so­lo Dio». Quindi è inutile proclamarsi “spe­ciali” solo perché si allena una squa­dra di calcio. «Di uomini speciali, cioè con un ca­risma fuori dal comune, ho cono­sciuto Papa Wojtyla. E poi Alex Za­nardi: penso che dopo l’incidente che ha avuto la sua voglia di vivere debba essere d’esempio per tutti». Per quei bambini e quelle persone meno fortunate che vi guardano co­me degli idoli, lei si sente un esem­pio?«Cerco di fare quello che posso per chi soffre e so che tanti si adoperano nel sociale insieme alle innumerevo­li fondazioni sorte in seno alle società di calcio, ma non trovo sia necessario sbandierare la solidarietà. Ciò che conta è sapere che una nostra buona azione può recare beneficio agli al­tri ». Fabio Capello rimane ancora un suo “nemico”?«Con Capello non c’è mai stato e for­se non ci sarà mai feeling, ma ciò non toglie che tra noi regni un rispetto professionale reciproco».In questi mesi l’hanno accostato al­la nazionale giapponese e almeno a una dozzina di club europei, ma qual è il suo vero progetto futuro? «Lavorare con i giovani, veder crescere un gruppo con un programma preci­so. I miei due principi fondamentali non sono certo il denaro e la vittoria a tutti i costi, ma il divertimento e la possibilità di educare attraverso il cal­cio. È quello che faccio da una vita». Si è lasciato qualche rimpianto alle spalle? «Se all’epoca avessi giocato nella Ju­ve, nel Milan o l’Inter, un paio di Pal­loni d’oro li avrei portati a casa anche io. Però l’unico rimpianto vero rima­ne la finale di Coppa dei Campioni a Wembley persa con il Barcellona. Un dolore forte, sapevamo che quella sa­rebbe stata la nostra prima e ultima occasione...». Una ferita aperta che si può ancora rimarginare? «Fino a quando andrò in panchina non avrò altro scopo se non quello di riprendermi quella Coppa che avrei meritato da giocatore. Adesso sono pronto per andarla a vincere da alle­natore».