Agorà

Nazionale. Mancini, ct dei record, sulle orme di Pozzo

Massimiliano Castellani venerdì 25 giugno 2021

La Nazionale del ct Vittorio Pozzo vincitrice ai Mondiali del 1938

Selezionatori si nasce. Vittorio Pozzo (1886-1968) è stato il ct azzurro per antonomasia, ufficiale e gentiluomo da una Nazionale una vita. Roberto Mancini selezionatore lo è diventato. Allenatore in campo – da sempre, n.10 estetico – da dove elargiva istruzioni per il bel calcio assieme al gemello del gol, Gianluca Vialli. Non aveva ancora il patentino per allenare che dal Palazzo del pallone gli permisero, con “deroga ad Mancinum”, di andare in panchina. Esattamente vent’anni fa, nel 2001, 37enne debuttava da mister con la Fiorentina. Poi la Lazio, a quarant’anni il primo dei tre scudetti vinti con l’Inter di Moratti e volo oltremanica per prendersi una Premier low-coast con il Manchester City, assieme al figliol prodigo, il “black italian” Mario Balotelli. Infine avventure da testardo senza gloria, ma sempre con lauti ingaggi e nuovo guardaroba da mister fashion, in Turchia e in Russia. Nel 2018 la chiamata della madre patria: la Nazionale. Tre anni pieni di successi e il solito score da recordman. Già, perché in campo il Mancio si era già distinto fin dagli esordi come baby prodigio del Bologna di cui resta il più giovane debuttante in rossoblù: esordio a 16 anni, 10 mesi e 7 giorni. Con la sua seconda pelle, la maglia blucerchiata della Sampdoria vanta il primato del maggior numero di presenze 566 (120 gare di Coppa Italia) oltre che del miglior goleador di sempre, 173 gol realizzati. E adesso i primati azzurri: mai accaduto che la Nazionale superasse il primo turno degli Europei a punteggio pieno, 3 vittorie su tre che fanno 11 successi di fila e 30 risultati utili consecutivi – con in più, 32 gol fatti e 0 subiti – in gare ufficiali. Eguagliato il magnifico score del “Selezionatore insuperato”, Vittorio Pozzo. Così lontani nel tempo, Mancio e Pozzo, eppure così vicini per senso di appartenenza a una Nazionale che, come quasi sempre nella storia italica, è specchio e rappresentante del Paese reale.

Un faccia a faccia virtuale alla vigilia di questo Italia- Austria che potrebbe concedere a Mancini il 31° sigillo e record assoluto. E Italia-Austria rimanda sempre a Pozzo, tenente degli Alpini, razza Piave, che, nella Grande Guerra, dopo aver combattuto e vinto l’esercito dell’Imperatore Cecco Beppe, al Mondiale italiano del 1934 in semifinale superò per 1-0 il mitico Wunderteam di Matthias Sindelar, il “Mozart del calcio” (ucciso dai nazisti). A decidere l’incontro di San Siro fu il gol dell’oriundo Enrique Guaita, argentino di Lucas González naturalizzato italiano dopo il suo arrivo alla Roma, nel ’33. In tempo per prendere parte a quei Mondiali fortemente voluti dal regime fascista in cui l’Italia del pallone stabilì anche in campo una dittatura tecnica assai gradita a Mussolini che dalla tribuna degli stadi ribadiva: «Vincere e vinceremo». Il calcio «virile ed ardito» era di dominio del “ras” Leandro Arpinati, numero 1 della Federcalcio che, dopo la disfatta olimpica di Parigi, nel depressivo 1929 nominò Pozzo “Commissario unico”. «Accetto molto volentieri, a patto che non mi venga dato un centesimo», fu l’«obbedisco» del Selezionatore. Su questo punto il confronto con Mancini vacilla, perché il ct del Terzo millennio, chiunque sia, può essere animato anche dai più sani e profondi principi filantropici ma difficilmente potrebbe lavorare gratis per la Federazione senza l’avallo del procuratore e privo degli sponsor che ruotano intorno a Coverciano, e che foraggiano la Nazionale.

Come Pozzo dunque nessuno mai, anche sul piano della “resistenza”, a meno che Mancini non rimanga al suo posto fino al 2034. Perché sono stati sedici lunghissimi anni, da 1934 al ’50, quelli che Pozzo visse da uomo solo al comando della truppa azzurra con cui ha affrontato 97 battaglie, riportando 64 vittorie e 17 pareggi. Stratega profondamente etico, forgiato alla scuola salesiana torinese, così come Mancini non dimentica mai le sue radici oratoriali nella natia Jesi: primi calci con l’Aurora nella parrocchia di San Sebastiano sotto gli occhi benevoli di don Roberto Vigo. Mancio uomo laico, ma profondamente devoto alla Madonna di Medugorje, attento al sociale e ben informato sui fatti, ma non ascrivibile alla categoria dei “tecnici-filosofi”. Mancini è un’icona pop, che però saprebbe ascoltare e mettere a frutto gli insegnamenti di un “ct-intellettuale” come è stato Pozzo. Uomo di lettere e fine giornalista sportivo, passato anche dall’esperienza “manageriale” alla Pirelli, con la Nazionale fece un autentico lavoro cul- turale, educando con saggezza e spirito paterno i suoi figliocci prediletti, Levratto, Baloncieri, Meazza e Piola. In un calcio autarchico anche nel mercato, dal momento che il ras Arpinati nel ’26 aveva dato il via libera al professionismo remunerato, ma anche chiuso le frontiere agli stranieri (erano ottanta nella stagione 1925-1926, per lo più di nazionalità austriaca e ungherese), la Nazionale di Pozzo costruì le sue fortune anche potendo contare sulla classe degli “oriundi”: come Guaita appunto, oltre a Monti, Demaria, Guarisi e Andreolo.

Eroi di un calcio pionieristico, ai quali Pozzo, l’intellettuale prestato al pallone, con solidi studi in Svizzera alle spalle e continui viaggi di aggiornamento nella patria del football, il Regno Unito, insegnò prima di tutto l’arte del saper vivere e del condividere, badando sempre alla sostanza. Il tutto partendo dalla «responsabilità»: come nel Paese era stata affidata al Duce, così nel calcio richiedeva la concessione di pieni poteri al commissario unico. «Cominciai a convincermi che l’idea di una persona sola, che si basi beninteso, su concetti pratici e sani, porta a migliori risultati della somma delle idee di quattro, otto, dieci persone, ognuna delle quali, presa isolatamente, valga di più di quell’unica di cui parliamo». Unicità del ct che l’umile egocentrismo di Mancini ha sposato a pieno e creato un gruppo animato da un cameratismo solido che rimanda al calcio dei “balilla”, di Pozzo. Il Mancio elegante quanto Pozzo guida tanti ottimi soldati scelti e pronti all’assalto, ma privo di quel fuoriclasse, come il “Balilla”, Peppino Meazza. Per Gianni Brera un «dio del fòlber», negli anni ’30, Meazza era il miglior attaccante del mondo. Il bomber ambrosiano, più fedele al credo di Pozzo del suo fido cane Black che lo accompagnava nelle scalate alpine e nei rifugi dove meditava su tattiche da sperimentare e articoli da pubblicare per “La Stampa”. Dall’Hotel Alpino di Stresa e negli altri spartani rifugi scelti con spirito da trincea dall’ex militare del 3° Reggimento, vennero avviate le grandi manovre per la conquista del mondo di cuoio. Ma Pozzo (così come Mancini ora) nessuna demagogia nei sermoni di spogliatoio o rinvii al politichese, tant’è che il Selezionatore insegnava: «Non fare della politica con nessuno, tanto meno con i giocatori, e rimanere libero dai legami di ogni sorta, principalmente dai legami di carattere economico, per poter divincolarsi se necessario al momento in cui non si potesse puntare diritto allo scopo prefisso».

Le vette raggiunte furono le più alte: i due titoli mondiali di Roma 1934 e Parigi ’38 e, in mezzo, l’oro olimpico di Berlino 1936. I Giochi del Führer in cui le leggi dello sport nazista prevedevano tassativamente: presentarsi con calciatori dilettanti (o mascherati da tali, specie quelli che avevano avuto sporadiche apparizioni tra i professionisti). Ma gli azzurri del ’36, che Pozzo aveva selezionato seguendo i “Giuochi universitari”, erano tutti studenti autentici e ragazzi di buona famiglia. A cominciare dall’occhialuto interista Annibale Frossi, studente in legge, che salvò la faccia all’Italia contro gli Stati Uniti infilando «d’astuzia il cuoio in rete» per l’1-0. Questo evitò l’uscita di scena ai quarti di finale ma non l’ira funesta del tenente Pozzo, che tuonò: «Non sono abituato a parlare a vanvera. Se pensate di essere venuti qui per fare quello che vi pare e piace, me lo si dica chiaramente. Io pianto baracca e burattini e torno in Italia dove mi attendono impegni ugualmente impegnativi e di maggior soddisfazione!». La sferzata ebbe un effetto dirompente, cappotto d’acciaio al Giappone, 80, eliminata la Norvegia (2-1) che, buttando fuori la Germania, aveva fatto infuriare Hitler (austriaco di Braunau am Inn), il quale minacciò la riduzione degli investimenti sul calcio. L’Italia arrivò alla finale serena, allietata tutte le sere nel ritiro olimpico berlinese dalla voce e la chitarra del “figlio del vento” Jesse Owens che ricambiò gli applausi degli azzurri ricordando, anni dopo: «Gli italiani ridevano più forte di tutti. Mi mettevano allegria». La stessa allegria che, ieri come oggi, si respira nel ritiro azzurro. Ma allora, con l’inno alla gioia nel cuore e il fascio littorio stampato sul petto i ragazzi di Pozzo si presentarono all’Olympiastadion contro i “cugini del Reich” dell’Austria che si avviava all’epilogo: l’Anschluss (1938). La doppietta di Frossi decise una battaglia durata 120 estenuanti minuti che valsero il primo e l’unico oro olimpico nella bacheca della Nazionale. Così come nessun ct, pardon selezionatore, è stato in grado di conquistare due titoli mondiali di fila come Pozzo. Mancini lo sa e quando gli chiedono la differenza tra lui e il prode Vittorio, alza il colletto, si aggiusta il ciuffo e la giacca e umilmente azzimato risponde: «Lui ha vinto, io ancora no».