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Mostra di Venezia. Premio Bresson a MAKHMALBAF, il cinema per la libertà

Luca Pellegrini martedì 8 settembre 2015
«Dedico il Premio Bresson a Oleg Sentsov, il regista ucraino condannato una settimana fa da un tribunale russo a vent’anni di prigione. Dobbiamo ricordare questo ragazzo e artista così coraggioso. È in cella non perché abbia fatto qualcosa contro la legge ma perché ha dichiarato di non voler essere uno schiavo del pensiero e che nessuno, tantomeno il governo russo, può toglierli questa libertà. La Russia in questo modo ha mandato un messaggio alla società. Sta diffondendo la paura per controllarla». Il cineasta iraniano Mohsen Makhmalbaf – che con registi europei come Wenders, Leigh, Sokurov e Michalkov ha sottoscritto un appello per la revisione del processo e la liberazione di Sentsov – ha ricevuto il riconoscimento della Fondazione Ente dello Spettacolo in collaborazione con i Pontifici Consigli della Cultura e delle Comunicazioni Sociali. Ha consegnato il premio il presidente di quest’ultimo, monsignor Claudio Maria Celli, ricordando le prigioni del mondo e chi le occupa senza colpa, dopo processi fittizi. Il pensiero corre anche all’altro grande regista iraniano, Jafar Panahi. «Ma lui restò soltanto tre mesi in carcere. Rilasciato, ha potuto continuare a girare i suoi film. Chi, invece, rimane dentro, può solo stare seduto a contare gli anni».  Makhmalbaf conosce bene la prigione: a diciassette anni venne arrestato dalla polizia politica dello scià di Persia perché si schierò con chi voleva la caduta di quel regime. Restò fra quattro mura per 5 anni, subendo torture di cui porta ancora i segni sulla carne. E che hanno dato una impronta alla sua vita di uomo libero e artista.  «Una pallottola mi perforò lo stomaco. Mi portarono in ospedale, poi in carcere, poi di nuovo in ospedale per tre operazioni. La mia gamba sinistra era completamente distrutta. Ma la cosa peggiore fu la condizione in cui mi ritrovai: quattro persone come in una tomba, senza contatto con la realtà. Un bicchiere per bere e urinare. Potete immaginare cosa capita al vostro cervello e alla vostra anima in questa situazione?». Così lei ha provato il giogo della dittatura. «So su cosa si regge. Pesa sulla schiena della gente che ha paura, che vive nell’ignoranza o ha perso la speranza. Usa la propaganda e la minaccia per sopravvivere. Ci vuole coraggio per opporvisi e uscire allo scoperto». Lei lo fece. Lasciò poi l’Iran nel 2005, poco dopo l’elezione di Ahmadinejad. Ma quando vide Khomeini apparire nel 1979 sulla scaletta dell’aereo che lo aveva riportato a Teheran, quali furono i suoi primi pensieri? «Che fosse la versione islamica di Che Guevara o di Gandhi. Da Parigi aveva pure difeso il nostro cinema, gli piaceva Cow di Dariush Mehrjui. Poco a poco si sono impossessate di lui interpretazioni distorte della religione islamica. Che gli diedero il pretesto per uccidere. In Iran avevamo anche la piaga del terrorismo, per questo il popolo permise a Khomeini di agire con estrema durezza. La gente era consapevole di ciò che stava accadendo ma tornava ogni sera a casa senza parlare. La paura e il collasso della speranza hanno portato a una dittatura. In Egitto sta accadendo la stessa cosa». La dittatura l’ha raccontata nel suo ultimo film, The President. «Volevo riflettere su questo terrificante circolo vizioso: si inizia con la dittatura, il popolo rimane in silenzio, poi reagisce e la nazione, trovando energia con una rivoluzione, si riunifica. Quando la dittatura se ne va, ciascuno usa violenza contro l’altro. Scoppia la guerra civile e per fermarla spunta un altro dittatore. L’unica strada possibile per la democrazia è far crescere una cultura della libertà, che è sempre la prima ad essere cancellata dai regimi totalitari». L’Iran sta tentando di uscire dall’isolamento, ha firmato l’accordo sul nucleare. «Qualsiasi cosa riesca a offrire la pace è buona per l’uomo e la società. La via diplomatica è l’unica percorribile. Attaccare non è mai servito. Guardate in Iraq: è stata portata per caso la democrazia con la guerra? In Afghanistan – ci ho vissuto e girato nel 2001 Viaggio a Kandahar – con l’attacco americano non è stata costruita una sola scuola dove imparare a leggere e scrivere. Quando si sente un popolo urlare per la democrazia, ci sono altri modi per farla crescere che non invadere un Paese». Oggi tutto il Medio Oriente è squassato da violenze ed esodi di popoli. «Tutti combattono tutti. Una follia. Non conosciamo neppure quali saranno i risultati di questo odio. Pensiamo ai rifugiati siriani: un oceano non è sufficiente a contenere le lacrime di tutti. Quando vedi un bambino di tre anni morire nel mare, come è capitato al piccolo Aylan pochi giorni fa, è una vergogna per tutta l’umanità. E io come padre non potrò mai più godere della bellezza di una spiaggia, dopo quell’immagine di morte». Una vergogna e un orrore è anche la follia distruttiva dell’Is. «Penso che tutto il mondo si dovrebbe unire per combatterla. L’Is è una combinazione strategica di cattiva politica, mancanza di cultura, indottrinamento all’odio, frustrazione, rigida ideologia, ricchezza petrolifera. Alla quale è andato almeno inizialmente il sostegno di Paesi ricchissimi come l’Arabia Saudita e il Qatar. Io poi mi vergogno come iraniano dell’aiuto abnorme che abbiamo concesso ad Assad in Siria, mentre nemmeno un dollaro è stato tirato fuori per i rifugiati. I fanatismi religiosi e politici si stanno moltiplicando, così non si riuscirà mai a trovare una soluzione al conflitto araboisraeliano o a quello che oppone le diverse tribù libiche». È molto preparato sulla questione mediorientale... «Leggo molta letteratura su questa tragedia senza fine. Ma mi interessa anche la psicologia, che mi hanno fatto conoscere i miei tre compagni di cella. E i trattati scientifici che riguardano l’origine dell’universo. Perché lo spazio – pensando al puntino che siamo –, mi tranquillizza. E queste letture mi aiutano anche a creare i personaggi dei miei film». Per i quali riceve ora un Premio intitolato a Robert Bresson. «Per me Bresson non è solo un regista, un artista. Lo considero un profeta. Come lo sono stati Bergman e Tarkovskij. I profeti sono dei messaggeri, riescono a cambiare il mondo. Credo che Bresson abbia sempre provato col suo cinema purissimo a ridurre la sofferenza degli esseri umani».