Agorà

Intervista. Magalhães, «L’arte mi ha portato a Dio»

Lorenzo Fazzini martedì 12 maggio 2015
Da sempre è stato abituato a interpretare le parole umane. Quando, per curiosità culturale, ha iniziato a leggere quella di Dio, la sua vita è cambiata: da neoateo («appartengo a una generazione che ha per lungo tempo guardato alla fede quasi come un’idiozia intellettuale»), oggi Gabriel Magalhães, intellettuale molto noto in Portogallo (è stato Prêmio Revelação nella categoria romanzo) racconta la sua conversione nel libro Il tuo volto allo specchio. Il Vangelo trasforma la vita (Paoline, pp. 128, euro 14). "Il Vangelo è la vita, la vita è il Vangelo". Detta da un’ex ateo, questa è un’affermazione molto impegnativa. Da dove nasce?«Se leggiamo il Vangelo ogni mattina, il resto del nostro tempo sarà pieno dell’eco di quanto abbiamo letto. Questo perché la voce di Gesù è la stessa che noi intravediamo nella vita quotidiana. E così accade che, per esempio, quando siamo molto preoccupati per questioni economiche, ci compare davanti il Vangelo dei gigli del campo. Noi cattolici siamo troppo abituati a considerare il Vangelo come "cosa propria" di preti e teologi. Viviamo nel territorio delle interpretazioni del testo sacro che queste persone ci trasmettono. Orbene, queste interpretazioni sono molto importanti, ma ogni versetto evangelico può avere, in ogni momento, un senso individuale per ciascuno». Prima di diventare cristiano, quali erano i suoi punti di riferimento culturale?«Quando non si crede in Dio, i nostri istinti diventano una religione. Rendiamo le nostre ambizioni un grande Vaticano personale. È questo, penso, ciò che ha portato il poeta Fernando Pessoa ad affermare: "Il fatto che Dio non esiste è anch’esso un Dio". Siamo tutti "condannati" a un senso del divino. Adoreremo sempre qualcosa, sia esso un falso dio o il vero Dio. Nel mio caso, divinizzavo l’arte e la cultura. Appartengo a quel tipo di persone che hanno la tendenza a trasformare i propri scrittori preferiti in una sorta di profeti privati. Oggi posso dire che l’arte era per me una sorta di "antipasto" di Dio». Perché? «Ogni quadro che contemplavo mi faceva intravedere, senza che lo sapessi, il volto del Signore. E in tutti i testi che leggevo, c’era, molto forte, la nostalgia di ascoltare la voce di Gesù. Oggi molti turisti visitano le cattedrali in Europa: anche se non vogliono riconoscerlo, quello che cercano lì è la comunione con l’assoluto, l’intesa con Dio. Dal punto di vista politico ero piuttosto a sinistra. Penso che anche il desiderio di giustizia sociale, tipico della sinistra, sia anch’esso il desiderio del paradiso, una sorta di intuizione di Dio». Come è avvenuta la sua conversione?«Ad un certo punto della mia vita ho deciso di leggere i Vangeli considerandoli un lavoro importante del nostro patrimonio culturale. Era come visitare una cattedrale di parole. Quando ho iniziato, mi sono accorto che nelle mie giornate continuava quel che avevo letto alla mattina. Vi era quell’eco di cui parlavo prima. Poco a poco ho iniziato a "comprendere" la voce di Gesù nella mia vita. È stato qualcosa di molto forte perché ero abituato a una sorta di silenzio totale, tipico dell’uomo che vive senza un senso spirituale. Fondamentale poi è stato il ruolo di colei che poi è diventata mia moglie, che era già credente»."Il cristiano vero è scomodo, inquietante. Se non è sempre così è perché molti di noi vivono la fede solo a metà. Uno svilimento del cristianesimo". Questo suo j’accuse è molto esplicito. «Le strutture sociali amano gli schiavi: costano meno e sono più pratici. Oggi vi sono delle imprese che cercano di asservire i loro dipendenti con la minaccia della disoccupazione, un vero dramma nella nostra penisola iberica. Ora, il cristiano non è uno schiavo sociale. Si sente libero interiormente. Dipende dal Signore e a Dio obbedisce. Rispetta le regole della società ma si fa forte di una grande libertà. E la gente finisce per notare questa indipendenza. Una libertà che sorprende molto perché osa vivere la gioia di amare e di dare fiducia. Il cristiano non è una persona marginale o non integrata: continua a compiere tutti i suoi compiti nella società, ma lo fa in modo diverso, con l’aureola invisibile del suo amore e della sua libertà. E questo fa sorgere varie domande: chi è questo? Da dove gli viene? Dove va? Perché agisce così? Sono le domande che hanno accompagnato Gesù, o Francesco e i suoi primi frati, le stesse sollevate da Teresa d’Avila: una donna che confonde, che fonda monasteri e scrive libri! E cosa deve aver pensato il grande filosofo Husserl quando la sua discepola Edith Stein decise di diventare carmelitana? Papa Francesco è un altro bell’esempio di questo modo amicale del cristiano di "confondere" il mondo». Da più parti si osserva che se nell’Ottocento e nella prima metà del ’900 Dio era ancora presente nella letteratura, oggi è il grande assente nel romanzo. Concorda? «Sì. Il XIX e la prima metà del XX secolo numerosi autori hanno cercato di scrivere una versione "corretta" della Bibbia. Alcuni ritratti fatti da scrittori come Tolstoj non ci ricordano il Mosè di Michelangelo? I romanzieri di quel periodo sono stati onesti riguardo le loro preoccupazioni metafisiche. Oggi le novità che emergono nel mercato letterario apparentemente non si occupano molto di Dio. Ma ci sono eccezioni. Il mio compatriota José Saramago ha dedicato diversi libri a discutere aspramente con la divinità. E nei suoi romanzi troviamo spesso la questione del sacro. La grande differenza rispetto a prima è che ci si aspettava ancora di trovare un senso alla vita, anche in mezzo ad un oceano di dubbi. Al contrario oggi gli scrittori hanno un rapporto con la religione solo perché vogliono trovarvi qualcosa da prendere in giro. Non tutti, ovviamente, ma si può constatare tale tendenza, oltre a un’altra linea che consiste nel dimenticare il sacro. Ma sono ottimista: se si guarda la saggistica, troviamo molti libri sul divino. Alla fin fine noi veniamo e riveniamo a Dio. La storia dell’umanità è costantemente un abbandono e un ritorno verso l’amore del Padre».