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Liana Marabini. «Nel mio film “Mothers” il dolore delle madri dei foreign fighters»

Alessandra De Luca giovedì 13 aprile 2017

Una scena della pellicola di Liana Marabini, «Mothers», da oggi al cinema

Se sul grande schermo si susseguono film che mettono in scena gli aspetti più “spettacolari” del terrorismo, arriva al cinema da oggi una storia che affronta il jihad da un punto di vista inedito. Mothers, diretto da Liana Marabini, racconta il dramma di due madri assai diverse per provenienza, classe sociale e religione – una è cattolica, l’altra musulmana – ma accomunate dalla medesima tragedia: i loro figli si sono arruolati nelle file del Daesh come foreign fighters.

Marabini, quali sono le sfide nel raccontare il tormento delle madri dei “carnefici”?

«Ho letto tempo fa un libro del Cinquecento, Mémoires d’un bourreau (Memorie di un boia) su un uomo che tagliava la testa ai condannati a morte. Quest’uomo parla delle sue vittime, della sua solitudine, ma soprattutto dice una frase che mi è rimasta impressa: “Mia madre non è mai stata fiera di me, per il mestiere che facevo”. Ho pensato molto alla madre di un boia, a cosa doveva sentire guardandogli le mani quando stavano seduti intorno a un tavolo».

Il film affronta molti temi cruciali, tra cui il senso di colpa e il perdono.

«Nel cattolicesimo si parla molto del perdono, appannaggio dei forti e di coloro che sono privi di narcisismo, che è invece causa di infelicità, invidia, gelosia, frustrazione. Tutti i genitori i cui figli fanno scelte sbagliate si domandano dove hanno sbagliato. Nel film si fanno aiutare da una psicologa, interpretata da Victoria Zinny, e durante le sedute le vite di questi genitori si intrecciano, le storie dei loro figli vengono in superficie e le amicizie si consolidano».

Come si è documentata?

«Ho visionato film di propaganda in internet. Ho parlato con una vecchia amica, una psicanalista alla quale mi sono ispirata per creare il personaggio di Diana. Ho letto tante testimonianze per capire cosa spinge questi giovani a fare scelte del genere».

Nel film assistiamo anche al dolore dei padri, come quello interpretato da Remo Girone.

«Girone interpreta Eric, la cui unica figlia si innamorata di un siriano, un comandante del Daesh conosciuto in internet, e lo raggiunge a Raqqa. La madre muore di dolore e il padre soffre per la perdita della moglie e della figlia».

Ci sono anche un regista israeliano in crisi per aver ucciso un terrorista e una donna scampata a un attentato dove sono morti marito e figlio. Il film mostra bene a quanti livelli agisca il terrorismo.

«Il personaggio di Sam, interpretato da Christopher Lambert, soffre terribilmente per aver tolto la vita un uomo e dice: “Quando uccidi qualcuno, non sarai mai più come prima. È come avere mangiato carne umana”. Anche la giovane Claire, interpretata da Eléa Clair, non si dà pace: è annientata dal senso di colpa, ma allo stesso tempo vuole capire cosa spinge un uomo a uccidere 300 persone».

I protagonisti cercano le ragioni della radicalizzazione di giovani europei. Quali le responsabilità dell’Occidente?

«In Europa ci vergogniamo della nostra religione, togliamo i crocifissi dalle scuole, la festa di Natale e il prosciutto dalle mense, “per non offendere”. Invece dobbiamo evangelizzare l’Europa. Concediamo troppo ai nostri ragazzi, facendo loro perdere il senso dei valori, della disciplina e degli ideali. Non riusciamo più a essere missionari, che è la vera essenza della trasmissione della nostra fede. E allora appaiono i reclutatori islamici, specializzati in marketing, che sanno manipolare le anime deboli di giovani disorientati in cerca di identità, dando loro l’impressione di aver trovato anche un Dio».

La fede la aiuta a riflettere su temi così rilevanti?

La fede è la più grande grazia che una persona possa ricevere perché aiuta a vedere chiaro. Anche gli studi di psicanalisi mi sono molto utili: abbinati alla mia fede, mia aiutano a capire le anime, le zone di luce e ombra, i peccati e la possibilità di redenzione. Anche il passato più oscuro si può correggere, prendendone coscienza, chiedendo perdono a Dio e facendo i passi giusti verso la salvezza».

Non un film anti islam.

«Fatima, mamma islamica magistralmente interpretata da Margherita Remotti, ha un’anima bellissima. Diventa amica di Angela, mamma cattolica, che Mara Gualandris ha dipinto con sensibilità e maestria. Mothersnon è un film politico, ma una riflessione su cosa può succedere se si imbocca una certa strada. Un avvertimento per quei giovani che pensano di trovare nel terrorismo una risposta al vuoto spirituale, un consiglio su come riempire quel vuoto in modo positivo».

Padre Emmanuel ha un ruolo molto positivo nella storia.

«In tutti i miei film ci sono figure di sacerdoti. Ho un grande rispetto per questi uomini forti e straordinari. La stampa e la società si occupano solo di quei pochi che fanno del male, ma la stragrande maggioranza di loro è dedita al bene. E io nei miei film li dipingo come leader spirituali. Ma in Mothers abbiamo avuto una grazia. L’attore che fa padre Emmanuel, l’inglese Rupert Whynne- James, è anglicano. Per questo ruolo è andato a “scuola” da un mio amico sacerdote che, spiegandogli come doveva “interpretare” la Messa, gli ha dato dei libri e lo ha fatto assistere a diverse celebrazioni. Ebbene, Rupert ha deciso di convertirsi al cattolicesimo, si sta preparando al battesimo e io sarò la sua madrina».

Lei è ideatrice e presidente del Festival del Film Cattolico Mirabile Dictu. Quale dovrebbe essere il ruolo del cinema nella società contemporanea?

«Ho creato il Festival per dare spazio ai film che educhino, che presentino personaggi positivi con valori morali. Ringrazio la Santa Sede che attraverso il Pontificio Consiglio della Cultura e il cardinal Ravasi ha avuto fiducia in questo progetto. Oggi l’umanità ha bisogno di esempi, non a caso viviamo nell’epoca dei coach. Cerchiamo dei maestri, dimenticando che il maestro più grande lo abbiamo già: Gesù».