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REPORTAGE. Macao, quando il Dragone guarda a Las Vegas

Stefano Vecchia lunedì 24 settembre 2012
​Macao è luogo dalle molteplici identità datele dalla sua storia, ma l’ultima e singolare le è arrivata da precise scelte dei suoi governanti e di quelli della madrepatria cinese, nel cui grembo è rientrata il 20 dicembre 1999, dopo la lunga dominazione, prima commerciale e poi coloniale portoghese iniziata nel 1557. Quella che era prima centro di una singolare cultura cino-lusitana, città di cento chiese e mille traffici sulla rotta delle spezie e dell’oppio, è ora capitale asiatica del gioco d’azzardo, magnete per centinaia di migliaia di giocatori che nei 35 casinò della piccola Regione autonoma speciale della grande Cina giocano fortune, a volte vincono scampoli di benessere e spesso perdono se stessi. Ventotto milioni di visitatori, di cui 25 milioni cinesi, nel 2011 ne fanno una stella di prima grandezza nel turismo mondiale, ma soprattutto la "regina" dei tavoli da gioco e nelle slot machine. Macao ha oggi 600 mila abitanti sparsi, con una delle più alte densità al mondo, su 29,5 chilometri quadrati. A fare da contraltare, anche uno dei redditi pro-capite più elevati, ma questo non significa benessere condiviso. Non per gli immigrati, soprattutto quelli eccedenti le rigide quote legali che nel piccolo territorio cercano fortuna, sovente gestiti da organizzazioni al limite se non nel pieno della criminalità; nemmeno tanto per gli abitanti comuni, che temono non solo un degrado morale, ma anche la concorrenza dei cinesi dell’entroterra. Tuttavia, l’ampia autonomia sembra soddisfare i macanesi e la sua erosione ha effetti e opposizioni meno visibili che non nella vicina e meno collaborativa Hong Kong.A sovrastare il centro storico di Macao è la sagoma estrosa, a forma floreale del Grand Lisboa, che da anni ha reso il dirimpettaio Casino Lisboa un reperto quasi nostalgico per originalità di forma e di funzione. Almeno lì chi entrava poteva interagire con il mondo che era a due passi, oltre l’ingresso presso il lungomare, in un ambiente retrò e alla fine a dimensione di homo ludens, autonomo nella ricerca del rischio. Oggi un’organizzazione capillare gestisce chi arriva per tentare la fortuna, lo preleva dal traghetto da Hong Kong o dall’aereo nell’aeroporto locale o dall’autobus dalla grande Cina, lo porta nella casa da gioco prescelta, gli mette a disposizione tutti i servizi possibili, ne innalza o demolisce l’esistenza in un batter di ciglia e lo riporta ai luoghi di ripartenza. Tutto dietro vetri fumé in una temperatura resa glaciale dall’aria condizionata, tra suoni ovattati e infinite lusinghe: è Macao, ma potrebbe essere Marte di Total Recall. Oggi "il business" nasce e si conclude in parallelepipedi dalle decorazioni e dai nomi fantasiosi (Venetian, Babylon, Greek Mithology, City of Dreams, Sands, Galaxy...), tanto grandi da far impallidire la lontana Las Vegas che non a caso è stata un tempo riferimento, da cui sono partiti capitali da far fruttare in associazione con il business locale, e oggi diretta rivale. Ad approfittarne inizialmente, Stanley Ho, antico patron del Lisboa, grande magnate per quarant’anni, fino al termine del suo monopolio del gioco d’azzardo nel 2002, di "tutto" quello che a Macao era legato al gioco, allo svago e al turismo. Studi stentati presso i gesuiti a Hong Kong, un grande "fiuto" per gli affari e le giuste connessioni con Pechino, Ho ha identificato se stesso con Macao e Macao con le sue attività spesso spregiudicate, ma mai provatamente illegali. Oggi novantenne, ha diviso il suo impero tra figli, mogli e collaboratori, diversificandolo anche. Non è più "il re del gioco" di Macao, ma resta al centro della sua vita pubblica.Una Macao comunque diversa, oggi, non solo rispetto agli anni pionieristici di Ho, ma anche rispetto a quella che nel 1999 passò armi, bagagli e dubbia fama alla Cina popolare, che su di essa doveva dimostrare ben presto di avere altre mire che non moralizzazione, controllo politico e magari integrazione dottrinale. Il faro di Guia sulla collina omonima che domina il mare a Oriente, con le mura imbiancate a calce e la sua cappella conservata come una reliquia, parla a cuore di una mediterraneità che cui è ancora in parte nel carattere e nella parlata della popolazione locale; il forte che incombe sulla facciata vuota della Cattedrale di San Paolo, distrutta da un incendio nel 1835 (certamente l’immagine-simbolo del territorio) e delle vie sottostanti affollate di turisti, ricorda l’orgoglioso passato di centro della potenza portoghese nei mari d’Oriente, di una cattolicità dalla forte impronta gesuitica; indubbiamente, musei e rovine, abitazioni comuni, parchi e manifestazioni culturali rendono l’idea di una Cina "diversa" e intrigante... Basta però guardare oltre, all’orizzonte segnato dalle vestigia del gioco, del business e della pubblicità, verso la metropoli cinese di Zhuhai oltre il Fiume delle Perle, per avere pochi dubbi su una identità che vive il suo tempo sul cronometro delle priorità e a volte delle scelte incomprensibili della dirigenza cinese. Cambiata profondamente in 13 anni, tra altri 37, quando scadrà la sua autonomia decretata dagli accordi tra Pechino e Lisbona, Macao potrebbe essere irriconoscibile.