Agorà

INTERVISTA. Ma l’Europa non è un’«espressione geografica»

Marco Roncalli martedì 26 maggio 2009
L’Europa? Ha un senso se la riconosciamo come un progetto e non un territorio, un’entità politica e non geografica, una questione di valori vivi e non di frontiere morte; se la guardiamo abbracciando insieme il locale e il globale, gli intrecci fra identità e diversità, la sua unitas multiplex. Non più centro del mondo, né gendarme degli scenari internazionali, ma laboratorio aperto sugli orizzonti della globalizzazione. Aperto come esige la sua storia. E la ricerca del bene comune come destino dei popoli. Sono alcune delle riflessioni che attraversano il nuovo saggio di Mauro Ceruti e Gianluca Bocchi ( Una e molteplice. Ripensare l’Europa, Tropea, pagine 90, euro 8,90). A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, a dieci dalla fine delle guerre balcaniche, dopo le analisi a doppia firma confluite in Solidarietà o barbarie. L’Europa delle diversità contro la pulizia etnica (1994), Le radici prime dell’Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici (2001), Educazione e globalizzazione (2004), i due filosofi ritornano sul tema, raccogliendo la sfida della complessità e le lezioni del passato.Ne parliamo con Ceruti, chiedendogli innanzitutto perché – tra un prologo fissato sulla Porta di Brandeburgo nella notte del 9 novembre ’89 e un epilogo che indica una riconciliazione dell’Europa con la varietà delle proprie radici quale condizione per un suo ruolo su scala globale – il libro si snoda in una sorta di viaggio paradossalmente indietro nel tempo. Insomma: che orologio della storia è? «Un orologio che va avanti e indietro. L’orologio di un passato che non passa e lascia tracce di sé entro le vicende umane e storiche. Che segna un tempo in cui futuro e passato si rincorrono nelle tappe cruciali della storia europea: il 1914 e la grande guerra civile europea, il 1815 e l’età del contagio nazionale, il 1492 e la prima globalizzazione, il 1000 già cuore di un’Europa multipolare... Un orologio che segna il tempo degli intrecci di cui è fatto il presente dell’Europa, i suoi rischi e le sue opportunità». In ogni caso una storia che ha visto il ripetersi dei conflitti, i limiti dei paradigmi imperniati sulla sovranità assoluta degli Stati: eppure certe interpretazioni semplicistiche del concetto di identità. non finiscono per continuare a sostenerli? «Questo è un modo di pensare che, soprattutto in situazioni di crisi, può godere di popolarità, ma anche generare situazioni molto pericolose. Si fonda su un assunto: le identità sono definitive e rigide, non possano evolvere. Le identità sarebbero ben poco permeabili, non inclini ad accogliere apporti esterni, imporrebbero legami esclusivi con particolari territori». E invece? «Le identità della storia europea sono da sempre estremamente permeabili! Proprio i Balcani, le regioni che hanno visto impugnare le armi in nome di identità esclusive e contrapposte, sono state anche un laboratorio di continue assimilazioni, integrazioni, co-evoluzioni fra identità culturali diverse». Il caso Balcani però ha sovvertito anche il patto che prevedeva l’autorità sovranazionale dell’Onu per prevenire la guerra, evidenziando come fragile anche il trasferimento dell’autorità a istituzioni comunitarie di portata planetaria, ma pur sempre deboli. Come riporre fiducia allora in quell’Unione europea che voi vedete «come un’unica comunità politica multiculturale»? «La situazione dei Paesi dell’Unione e quella dei Paesi dell’Onu è diversa. I primi, a seguito della liberazione dai regimi totalitari, sono uniti da valori comuni, rispettano i diritti umani. Mentre troppi Paesi che compongono l’Onu sono guidati ancora da governi autoritari. Occorre il coraggio di un nuovo inizio: ripensare al momento fondatore dell’Onu, all’indomani della guerra vinta contro il nazismo, allo spirito che l’ha animata, in seguito poco rispettato. Temo ci vorrà tempo. Ma una buona riforma può valorizzare il successo di confederazioni di tipo continentale o sub­continentale, come appunto l’Unione europea». Progettualità economica, sociale, culturale: come si fa la sintesi fra radici eterogenee, difficili da sintonizzare, quando già bastano nuance all’interno di aree omogenee a frantumare progetti? «Ripensare le identità, come sintesi di diversità, pone le medesime sfide in ambienti omogenei o eterogenei, richiede nuove pratiche educative nella vita quotidiana. I diffusi sentimenti di chiusura, di aggressività verso l’altro, non vanno sottovalutati. Dobbiamo educarci alla consapevolezza che comunque è sempre l’incontro con la diversità di cui è portatore l’altro, anche appunto in aree omogenee, che consente a ciascuna persona di fiorire e riconoscersi nella propria unicità e nella propria identità. E ciò vale anche per le nazioni». È una lettura dell’Europa che richiede nuove declinazioni del concetto di identità: dove attingerle? «Ogni identità – biologica e culturale – emerge dalla co-evoluzione di diversità intrecciate in una trama complessa di relazioni. Dunque, non può che essere storica, una e molteplice. Anche ogni nazione, piccola o grande, ha un’identità una e molteplice, nasce dall’intreccio di culture diverse. E solo attraverso questo intreccio rigenera la propria vitalità e capacità coesiva. In particolare, non è mai esistita una 'fortezza Europa', con barriere invalicabili fra l’interno e l’esterno. La storia dell’identità d’Europa è tessuta dalle tante relazioni fra le varie culture e civiltà che si sono dette europee, e fra queste e altre di varie origini. L’Europa ha unità continuamente ricostruita attraverso la tensione e i conflitti fra le grandi correnti di civiltà mondiali. Appunto, ha un’identità complessa: una e molteplice».