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Parla Rutelli. Ma che fine hanno fatto i monumenti?

Roberto I. Zanini domenica 10 marzo 2019

Budapest, la rimozione del monumento a Imre Nagy nel dicembre scorso

Si chiamano monumenti e da sempre sono presenze fondamentali per le nostre città. La parola viene dal latino moneo che ha il significato di ammonire. E fin dall’epoca egizia, almeno, hanno svolto la funzione di “ammonimento pedagogico” di ammaestramento del popolo per conto del potere politico e spirituale. Proprio questa funzione condiziona da sempre la loro vita pubblica e la loro permanenza nei luoghi in cui sono stati eretti. Caso simbolo di questi ultimi anni sono i Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, distrutti dai talebani nel 2001. Poi ci sono state le distruzioni irachene da parte del Daesh e prima ancora gli abbattimenti delle statue dei dittatori nei Paesi dell’Est europeo alla caduta dei corrispettivi regimi. L’elenco potrebbe essere lunghissimo anche riferendosi solo agli ultimi cinquant’anni e al nostro Occidente, con avvenimenti che riletti a mente fredda hanno dell’incredibile. Una lista così lunga e così storicamente curiosa da fornire ampio materiale a una conferenza che l’ex sindaco di Roma, ex ministro e attuale presidente dell’Anica Francesco Rutelli ha tenuto ieri nella sede dell’Accademia di Francia a Villa Medici sul tema “Continuiamo a demolire i monumenti. Disfare e rifare la storia: distruzioni e conflitti fra arte, politica e propaganda nello spazio urbano, dalla Roma antica a oggi”. Un lavoro vastissimo e documentato con decine di immagini che abbiamo provato a circoscrivere parlandone con lo stesso Rutelli.

Per monumenti intende le strutture iconiche e simboliche che hanno attraversato la storia?

Sì, mi riferisco a quelle strutture che sono state dei simboli politici, religiosi, culturali e che proprio per questo sono state in seguito distrutte, spostate, ripensate, ma anche, in molti casi, conservate e valorizzate. In questo senso a Roma, ma non solo, hanno avuto e hanno un particolare valore gli obelischi. Erano giunti a dall’Egitto come simbolo del potere di Roma sul mondo. Nei secoli erano caduti, erano stati abbattuti. Poi Sisto V con una grande intuizione ha dato loro un valore simbolico diverso e li ha valorizzati: ne ha fatto dei riferimenti per i pellegrini ponendoli davanti alle grandi basiliche. Una sorte analoga è stata assegnata alle grandi colonne romane: in vetta alla Colonna Antonina è stato posto san Paolo; sulla cima della Traiana, invece, san Pietro.

Ma gli obelischi non sono solo a Roma e non sono solo egizi.

Il più grande obelisco di sempre è quello edificato a Washington e anch’esso ha un evidente significato politico, così come il più grande arco trionfale (simbolo tipicamente romano) è stato eretto a Pyongyang nel 1982 per celebrare il dittatore Kim Il-sung. C’è poi, per esempio, l’obelisco di Istanbul voluto dall’imperatore Teodosio. E tornando a Roma c’è anche l’obelisco del Foro Italico che venne fatto costruire dal Duce per celebrare il nuovo impero.

Un caso di simbolo di potere conservato nel tempo.

Perché con grande lungimiranza lo abbiamo considerato parte di un importante complesso urbanistico, artistico e architettonico, non più un’apologia del fascismo.

In Italia ci sono altri casi analoghi?

Tanti e in alcuni casi anche curiosi. Sempre a Roma, davanti alla sede dell’ex Ente Eur, sulla piazza, c’è una scultura di Orlando Italo Griselli realizzata nel 1939. Si intitolava Il genio del fascismo e se la vedi fa il saluto fascista. Ma nel dopoguerra intelligentemente è stata trasformata: alle mani gli sono stati messi i guantoni dell’antico pugilatore, sul capo una corona d’alloro ed è stata ribattezzata Il genio dello sport. Analogamente all’Università per stranieri a Perugia c’è una rappresentazione murale del trionfo di Roma con un Mussolini operaio. Dopo la guerra fu Aldo Capitini a farsi carico di trasformare Mussolini in un vero operaio, mantenendo la memoria, ma eliminando il carattere fascista dell’opera artistica.

Ad altri dittatori non è accaduta la medesima sorte.

Ci ricordiamo perfettamente della fine che hanno fatto le statue di Saddam Hussein o quelle di Ceausescu in Romania o, ancora, quelle dell’albanese Enver Hoxha. In Spagna le immagini di Franco e i simboli franchisti rimasti suscitano ancora polemiche. In Paraguay, ad Asunción, la statua del dittatore Alfredo Stroessner è stata simbolicamente posta fra due blocchi di cemento armato che la stritolano. Ma è successo anche di recente che in Ungheria Viktor Orbán abbia fatto rimuovere la statua di Imre Nagy, martire della lotta al comunismo.

È successo anche, aberrazione del politicamente corretto, che a Los Angeles sia stata tolta la statua di Cristoforo Colombo.

Una questione incredibile perché è stato fatto con la pretesa che Colombo sia il colpevole, l’iniziatore del genocidio dei nativi americani. Di fronte alle proteste dilaganti rilanciate attraverso il web, le autorità hanno pensato in questo modo di risolvere un problema reale che ha ben altre cause, evitando di farsi carico delle vere responsabilità. Allo stesso modo sembrava che dovesse essere tolta la statua di Colombo a New York in mezzo a Columbus Circus e quella a Central Park è stata imbrattata. È incredibile che nel terzo millennio non si riesca a contestualizzare un simile personaggio nella sua epoca. Ma è capitato anche per Gandhi. Il suo monumento ad Accra, in Ghana, è stato rimosso l’anno scorso dopo una manifestazione studentensca al grido di “Gandhi deve cadere” perché gli si imputavano affermazioni politicamente scorrette nei confronti dei neri, pronunciate un secolo prima. Il problema è che oggi stiamo tornando a rifiutare la complessità della storia. E la storia giudicata con le lenti dell’oggi porta a un grave impoverimento culturale.

Come se lo spiega?

Alla fine del secolo scorso, anche grazie alle convenzioni Unesco, ci era sembrato di essere approdati a una visione condivisa sulla tutela delle icone monumentali del passato. Poi è arrivata l’iconoclastia dei fondamentalismi che ha cambiato le carte in tavola. E adesso stiamo andando verso un’epoca in cui l’immediatezza della comunicazione sui social e il parallelo desiderio di polarizzazione politica e strumentalizzazione ideologica renderà complicato se non impossibile anche il solo pensare di realizzare nuovi monumenti condivisi nello spazio pubblico. Del resto è sempre più evidente come non si riesca a condividere più uno stesso ideale o il rispetto per gli ideali altrui.

Al monumento si preferisce l’effimera celebrazione del web?

È evidente che ormai la nostra piazza, l’arena delle nuove celebrazioni, siano i social. Due giorni fa, per l’8 marzo, è stata inaugurata davanti alla Borsa di Londra una piccola statua che raffigura la Ragazza senza paura, finanziata da un’azienda di consulenze per la finanza internazionale. Il motivo è quello di farsi pubblicità con la scultura grazie ai social. La stessa azienda, infatti, l’8 marzo del 2017, aveva inaugurato un analogo monumento davanti alla Borsa di New York, che da allora ha realizzato qualcosa come dieci miliardi di interazioni digitali. Quel che conta, insomma, non è il monumento né il suo significato. ©