Agorà

Storia. L'Urss dimenticata dei bimbi randagi

Laura Badaracchi martedì 8 ottobre 2019

Bambini rifocillati a Saratov grazie a Save The Children (1921)

Fra il 1917 e il 1935, nella Russia postrivoluzionaria, potevi vederli frugare nei cassonetti dell’immondizia o vagare in gruppi per le città e le campagne in cerca di cibo, nascosti negli scantinati delle stazioni per ripararsi dal freddo o aggrappati sotto i vagoni dei treni per spostarsi. Un fenomeno sepolto nella storia del secolo scorso, quello dei besprizornye, bambini e ragazzi 'randagi' rimasti orfani in seguito alla guerra o alla carestia. Non si tratta di un manipolo esiguo, che pure avrebbe meritato attenzione e cura: si stima che furono tra i sei e i sette milioni nel 1922 (nel 1926 la popolazione dell’Unione Sovietica era di poco superiore ai 147 milioni di abitanti), senza contare quelli ammassati negli orfanotrofi pubblici «simili ai lager », denuncia lo psicologo Luciano Mecacci, già docente di psicologia generale all’Università di Firenze, che da un decennio ha lasciato l’insegnamento per dedicarsi esclusivamente agli studi. A questi minorenni ormai sepolti nel libri di storia ha dedicato per Adelphi (pagine 274, euro 22) il corposo saggio Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935).

Come mai si è appassionato da oltre 40 anni a questa storia dimenticata?

Negli anni Settanta andavo in Russia di semestre in semestre, come ricercatore del Cnr. Poi ho lavorato nell’Istituto di psicologia di Mosca, nel campo della psicofisiologia e della storia della psicologia russa: il libro Cervello e storia uscì nel 1977 con la prefazione di Aleksandr R. Lurija, che ha avuto su di me un’influenza sul piano umano e scientifico. Avevo letto qualche libro su questo fenomeno, molto studiato negli anni Venti sul piano sociale, politico, giudiziario, psicologico ed educativo, mentre in seguito erano stati imposti il silenzio e la censura da parte dello Stato sovietico, che non poteva ammettere un simile sfacelo. Dopo la caduta dell’Urss (ero a Mosca il 25 dicembre 1991), cominciarono a emergere libri nascosti e proibiti che la gente svendeva. Poi giovani ricercatori russi, ucraini, bielorussi hanno cominciato a fare delle tesi di dottorato sul problema affrontato dal punto di vista storico e demografico, indagato anche dagli scrittori. Ma volevo approfondire questi bambini dal versante psicologico, come crescevano in queste aggregazioni. Domande in sospeso a cui ho cercato di dare risposta con questo libro: una ferita, per me.

Perché?

Ho un passato politico: sono stato iscritto per 4-5 anni al Partito comunista e poi mi sono scontrato con i problemi concreti, avendo visto con i miei occhi quello che succedeva all’interno dell’Urss. Due esempi: il fallimento del progetto sovietico nella psicologia e l’uso della psichiatria per la repressione della dissidenza. Poi, studiando negli anni questo fenomeno, ho scoperto che nel 1935 Stalin proibì di parlarne, e il silenzio è durato fino agli anni Ottanta. Un capitolo così doloroso della storia dell’umanità, con un peso storico e politico enorme, era scomparso. Durante i periodi di studio che trascorsi a Mosca, tra il 1972 e il 1978, avrei voluto approfondire con l’aiuto degli psicologi russi questa tematica. Ma appena ponevo qualche domanda, il discorso veniva subito sviato: era un tabù?

Chi erano questi bambini e come sopravvivevano?

Vivevano in gruppi, raggiungendo la cifra complessiva di 7 milioni nel 1922. Erano orfani oppure abbandonati dai genitori, che li accompagnavano ai treni perché non potevano provvedere a loro dopo la guerra o le carestie. In alcuni casi gli stessi bambini scappavano di casa per cercare da mangiare. Un mondo molto composito, formato non solo da minorenni russi, ma anche ucraini, tartari, uzbechi, con lineamenti fisici diversi e lingue differenti. Eppure erano un corpo molto compatto e si riconoscevano subito fra loro, avevano adottato un linguaggio trasversale. Avevano dai 5 ai 15 anni e formavano delle bande vere e proprie, con i maschi più grandi che facevano da capo e le adolescenti che fungevano da madri per i piccoli. Per sopravvivere rubavano, ammazzavano: un problema serio per lo Stato, che - nonostante gli aiuti internazionali, anche pontifici, e le missioni umanitarie delle organizzazioni straniere per arginare povertà e fame cercava di rinchiuderli in 'colonie' gestite e fondate dal ministero dell’Interno e dalla polizia politica, nel tentativo di 'rieducarli' lavorando i campi. Ma presto il sistema si rivelò fallimentare: usciti, ingrossavano le file della criminalità. Molti si tolsero la vita o finirono nei lager, dove subivano torture fisiche e psicologiche. All’epoca in Russia la pena di morte era legale dai 12 anni, quindi tanti furono fucilati.

Qual era il pensiero e la psicologia di questi bambini abbandonati a se stessi?

Sviluppavano una precoce maturità e intelligenza: si organizzavano per mendicare, rubare, drogarsi, prostituirsi, uccidere, con casi di cannibalismo. La lotta per la sopravvivenza anticipava le competenze cognitive, anche nelle strategie per fuggire. Poi avevano capacità linguistiche trasversali: comunicavano nonostante conoscessero lingue diverse. Sul piano emotivo erano anaffettivi, senza empatia verso gli altri estranei al gruppo, invece fra loro si proteggevano (con attenzione verso i più piccoli e i disabili) e rispettavano le bande avverse. Il mondo degli adulti dava loro solo botte, quindi nutrivano rancore e disprezzo verso chi li aveva rifiutati e non nutriva pietà verso di loro.

Riconosce fenomeni odierni che possono assomigliare a questo?

Ce ne sono anche oggi, certo non nell’entità e complessità psicosociale degli anni Trenta, che ebbe proporzioni e caratteristiche uniche. Ma pensiamo alle periferie, alle favelas, ai ragazzi senza dimora in Romania, ma anche a Mosca e a San Pietroburgo, che vagano per le città, fumano, sniffano droghe. E molti bambini soffrono per i conflitti, la povertà, le migrazioni.

La parola "besprizornye" è difficilmente traducibile in italiano: "bes" in russo significa senza, "prizorn" vuol dire tutela, custodia, protezione. Quindi il termine indica bambini privi della protezione familiare e istituzionale, che negli anni seguenti alla Rivoluzione d’ottobre e alla Grande Guerra venivano abbandonati oppure scappavano dalle loro case, perché non volevano finire in orfanotrofio o nei programmi di recupero. Maschi e femmine di età compresa fra i 5 e i 15 anni, appartenenti a varie etnie, provenivano da ogni angolo dell’Unione Sovietica.