Agorà

I racconti. L'universo minimo e infinito di Mariotti

Rosita Copioli mercoledì 6 maggio 2020

Antoine Vollon, "Natura morta con macaco e chitarra (arte e ingordigia)", 1864

Giovanni Mariotti è lo scrittore italiano più misterioso. Insieme ad Annamaria Ortese e a Cristina Campo, due visioni letterarie che non potrebbero essere più dissimili da lui, respira in quell’ “aria diversa” che hanno connotato Nerval, o Schwob, o Potocki, o Kafka. Tutti esempi dissimili, uniti da un filo leggerissimo e tenace: la caparbia intelligenza della poesia, la fedeltà ai pensieri che continuano ad avvolgersi come la seta dentro il gheriglio di noce della fiaba. Fiaba non nel senso comune, ma in quello che le diede Novalis: non il mondo del fantastico, ma una realtà popolata di invisibile.

Qualunque cosa scriva – il romanzo epocale Storia di Matilde, una straordinaria «specie di Guerra e pace della Lucchesia», un immenso fiume di romanzi dentro al romanzo che attraversa cinque generazioni dall’Ottocento a oggi (Anabasi 1993, Adelphi 2003), o il romanzo taoista La carpa del sogno, dove fiume-stagno-acqua sono la condizione per la metamorfosi di pescatore e pesce, in doppi che si moltiplicano, in reincarnazioni sempre più sfuggenti (Franco Maria Ricci, 2017) – lo sguardo di Mariotti proviene da un gheriglio – in apparenza duro, nella sostanza ricchissimo – dal quale continua a sviluppare un racconto dagli inconfondibili colori, narrato in origine con il «mesto accento della Versilia» insieme alla madre dalla limpida voce di contralto, con la sua infelicità e sperdimento – che chiama bohème -: l’infanzia nella casa di sasso costruita dall’avo Jacopo nel minuscolo borgo di Pedona, la Scuola Rurale con i programmi ad hoc, il Seminario, il Liceo classico dove ha la vera rivelazione di se stesso. L’altisonante «voi che sarete la futura classe dirigente» del “Signor Preside” gli provoca un riso irrefrenabile, simile a quello disperato di Cioran. Prima di venire espulso dichiara: «voglio essere nulla». Capirà poi che anche il «voglio» sembra troppo; che, prima di lui, diventare nulla era stata, per alcuni individui non trascurabili, una meta ambiziosa. E sebbene Borges dichiarasse una «fallacia» l’idea che non essere sia più che essere qualcosa, e sia in qualche modo essere tutto, per uno che aspira a essere nulla ciò può voler dire, secondo Queneau, «essere cosa da poco».

Questo ultimo elegantissimo libro, Piccoli addii, che Adelphi pubblica in eBook nei Microgrammi (pp. 100, euro 1,99), racconta anche il seguito di questa avventura del “non”, che Mariotti descrisse nella nota a Il bene che viene dai morti (et al./edizioni, 2011): «non sono mai esistiti una cosa scritta, un lavoro, una nazione, una società, un mondo che io abbia sentito miei; queste pagine sono un sarmento, uno stecco intirizzito, di quelli che a Pedona raccattavamo per il fuoco». In realtà le pagine-sarmenti, che sono anche queste dei Piccoli addii, formano una sorta di Storia d’Italia, attraverso oggetti, situazioni, realtà che non esistono più o che sono diventate desuete con il Progresso. Eccone qualche esempio: Le calze velate, La volpe da armadio, Il salvadanaio, La carta assorbente, La carta moschicida, Il camino, La matassa, Specchi, La visita di leva, Maestri, Storia d’Italia, Le sigarette sciolte, Il liceo classico, Treni, Camere ammobiliate, Le scarpe, Prostitute, Ya, La bohème ...

Avverte Mariotti che «Piccoli addii alle cose della vita era il titolo di una rubrica estiva apparsa sul Corriere della Sera nel 2004; si trattava di brevi congedi da un mondo che non c’era più ... Se la prima parte è legata al mondo isolato in cui sono cresciuto, la seconda è dedicata ai primi passi fuori da quel mondo; il titolo alla Balzac, Scene di un debutto in società, comporta, forse, una sfumatura ironica». No, Mariotti non è Rastignac. L’ironia sul debutto allude alla sua migrazione a Milano negli anni sessanta, per lavorare prima in RAI, poi in editoria (ha anche collaborato per mezzo secolo con Franco Maria Ricci, di cui ha diretto la «Biblioteca Blu», e presso giornali: «Il Corriere della sera», «L’Espresso», «La Repubblica») sentendo che la parola «carriera» non fa per lui. E questi «sarmenti» contengono anche sapide allusioni al mondo editoriale: «Il menabò» di Vittorini e Calvino, la collana «Il tornasole» di Mondadori diretta da Vittorio Sereni e Niccolò Gallo dove esordì Elio Pagliarani con La ragazza Carla; e sebbene La Casa della Cultura avesse il vantaggio di essere gratis, ai Grundrisse o alla Scuola di Francoforte si poteva preferire il Teatro delle Maschere, se c’era l’affascinante Ya Douchevskaja: «Una volta tanto risoluto, rinunciavo senza rimpianti a Franco Fortini».

I capitoli delle cose perdute sono le noci da cui è sprigionata parte del mondo di Mariotti: apologhi dove gli oggetti diventano simboli, come la matassa e il suo garbuglio, ritratti, quadri, scene originarie del film che l’autore ha continuato a girare nella sua mente. Tra pudore e coraggio, un respiro paziente ritma le chiusure, e può ricominciare all’infinito, da un altro antico sguardo, da uno sguardo presente, come avviene in Matilde. Ogni singolo oggetto è capace di risonanze infinite, negli stili e punti divista diversi, sensazione dopo sensazione, suono dopo suono. Di qui viene l’occhio preciso come in certa pittura moderna: distingue minuziosamente, scompone all’infinito, come il punto geometrico, e ciò riguarda sia lo spazio che il tempo: allora la nitidezza si trasforma in pulviscolo, l’attimo in onnipresente contemporaneità; il vicino si allontana, come vedendo dall’alto, in una scia di luci notturne o di crepuscolo: lascia emergere l’invisibile, allenta il confine tra i vivi e i morti. Mentre l’autore desidera soltanto sfuggire a ogni definizione, e solo continuare a guizzare, come l’emblema che ha scelto nel suo penultimo libro: La carpa del sogno.