Agorà

Intervista. Luigi, l’altro De Gregori, principe del folk

Massimiliano Castellani martedì 7 luglio 2015
«Ed ho lavorato al porto / ho comprato ed ho venduto / sarei ricco e famoso / se non fossi sconosciuto». Così canta, con la voce calda e profonda come la sua anima da «nomade a metà», Luigi “Grechi” De Gregori, 71 anni, il fratello maggiore di Francesco. Quelle sono le parole di Ma che vuoi da me (traduzione di un brano degli «amati americani», Tom Russell e Peter Case), canzone che apre il suo ultimo cd antologico – esce oggi per Caravan, distribuzione I- Company – e che dà anche il titolo al suo undicesimo album, Tutto quel che ho - 2003-2013 - . In quella frase c’è forse anche la sintesi di un percorso musicale iniziato mezzo secolo fa, dalla mitica cantina del Folkstudio. L’ultimo vero tempio nostrano della musica internazionale dal vivo, dove alla fine dei ’60, tra «un anonimo cantante persiano, una cinese, un russo che aveva scavalcato il Muro di Berlino», un passaggio fugace di un «non ancora idolatrato Bob Dylan», e una sua cover di Pete Seeger, Luigi De Gregori – allora direttore del “Folkstudio Giovani” – una domenica pomeriggio del 1969 su quel palco faceva debuttare Francesco. Quel fratello minore (sette anni più piccolo) sarebbe diventato, con Rino Gaetano e Antonello Venditti, uno dei diamanti della “scuola romana”, il futuro “Principe” incoronato dei cantautori italici. E Luigi per non confondersi, con quel tocco di nobiltà famigliare in roboante ascesa, decise di assumere il cognome della madre, Grechi, salvo poi con il tempo riaffrancare il legittimo De Gregori, una volta che qui da noi è stato giustamente riconosciuto come il “Principe del folk”.Dica la verità, mai provata una punta di gelosia o un minimo di sana competizione con Francesco?«Quei due sentimenti sono quanto di più distante dalla nostra filosofia di vita. In fondo, io e Francesco siamo sempre stati ai vertici di due classifiche completamente differenti. La differenza tra noi? L’ha fatta quel dono di pochi che Francesco ha, saper incantare a corte come nei postriboli, così come accadeva quando Shakespeare recitava le sue commedie. Il successo vero di Francesco è stato arrivare all’apice senza mai vendere la sua sincerità e questo invece è quello che fanno la maggior parte dei cantanti di successo... A noi piace ripetere che “lui è un Principe degli chef” e io il “Re degli ambulanti di porchetta”. Comunque sia – sorride –, ce ne stiamo seduti sui nostri troni».Torniamo con la memoria a quella domenica del ’69, immaginava che il suo “fratellino” sarebbe arrivato in cima all’olimpo della musica pop?«Sì, perché in casa girava con il suo registratore a nastro e conoscevo bene le cose che scriveva, e mi sembravano molto interessanti. Francesco all’epoca era più vicino alla musica del cabaret milanese (Jannacci, Gaber, I Gufi), io suonavo già i brani folk del Duo di Piadena e grazie alla radio ascoltavo quella musica americana che dal rock di Elvis Presley mi avrebbe proiettato a Woody Gutrhie, a Peete Seeger e a quelle atmosfere acustiche – da noi allora ignote – dei grandi folk singer».I suoi punti di riferimento agli inizi?«Harold Bradley, fondatore del Folkstudio e ancora attivissimo a 86 anni, al quale devo anche l’incontro folgorante con il cileno Juan Capra – amico di Violeta Parra – un artista a tutto tondo, cantante, pittore e poeta, purtroppo morto in povertà».La poesia, la letteratura ha avuto un peso importante nella sua formazione.«Non mi sono mai laureato in lingue, ma con una borsa di studio andai a Dublino per conoscere i luoghi e la cultura in cui si era formato Joyce. In Irlanda ho conosciuto tanti giovani musicisti americani e ho imparato quella lingua. Mi è servita tanto, per la mia musica, per leggere i poeti della Beat Generation, accompagnare il meno noto Martin Matz e Lawrence Ferlinghetti in un tour in Italia organizzato dalla libreria City Lights di Firenze».Quella libreria ha chiuso i battenti, così come dal 1998 non c’è più il Folkstudio.«Vero, e questo è il segno di come da noi la cultura che “non fa reddito” si cancella in un istante. Con Francesco Pugliese, senza inutili nostalgie, un pezzo di Folkstudio stiamo provando a ricrearlo a Roma a “L’Asino che vola”. E quell’atmosfera emozionante, di cento persone che vengono ad ascoltarti e con cui instauri un rapporto diretto, si respira ancora in giro in qualche locale della nostra provincia, tipo la trattoria pavese “Da Trapani” o “All’una e trentacinque” a Cantù... Ma certo sono delle oasi sempre più rare».Una rarità nel suo ultimo disco è La strada è fiorita, un pezzo di suo fratello.«È un brano dei tempi del Fokstudio che Francesco considera un po’ “ingenuo” e quindi non l’ha mai inciso, ma io invece lo trovo molto bello e me lo sono preso».Nel ’92 suo fratello prese la sua ballata Il bandito e il campione che è diventato uno dei pilastri della discografia di Francesco De Gregori.«Per decenni nessuno ha saputo che quel brano era mio. Alcuni suoi fedelissimi ci sono rimasti male, dicevano sconsolati: “Ma almeno la musica l’ha fatta Francesco...”. E invece no – sorride –. Adesso quando mi invita nei suoi concerti (il prossimo 15 luglio all’Auditorium di Roma) la eseguiamo a due voci, ed è bello sentirla cantare da diecimila persone. Così come mi riempie d’orgoglio che Francesco abbia inserito in un suo album la mia traduzione de L’angelo di Lyon di Tom Russell».A proposito di Russell, in Ma che vuoi da me lei canta: “Beati i poveri di spirito, perché il mondo sarà loro, te l’avrei donato tutto, ma tu accetti solo oro”. Sembra un testo quasi religioso.«La mia traduzione è un po’ libera, Russell scrive: “Ti avrei regalato il mondo, ma quanto costa?”. Quanto al mio approccio alla religione, è assolutamente laico. Nella musica mi sento un po’ come John Donne che nel ’600 quando scriveva poesie sull’amore profano venivano interpretate come religiose e quando scriveva versi religiosi venivano presi come dedicati all’amor profano».Giunto a questo punto del suo cammino cosa amerebbe fare in futuro?«Suonare sempre di più e allargare il mio pubblico. Sarebbe bello portare le mie canzoni in quei teatri da cinquecento-mille spettatori. È la mia dimensione, quella che mi permette alla fine di un concerto di scambiare due parole con qualcuno che mi conosce da sempre o che magari è solo la prima volta che mi viene a trovare».