Agorà

Classici. L’eterna modernità del “De rerum natura” di Lucrezio

Roberto Mussapi mercoledì 10 agosto 2022

Lucrezio in una incisione ottocentesca

Ora abbiamo una nuova versione italiana di uno dei capolavori della poesia universale, il De rerum natura nella traduzione di uno dei nostri maggiori poeti, Milo De Angelis. Il capolavoro di Lucrezio - segnato da una vita misteriosa quanto quella del suo autore, vissuto nel primo secolo a.C., amato dai poeti latini del suo tempo scomparve fino a essere scoperto nel 1417 dall’umanista toscano Poggio Bracciolini. Non entra quindi nel canone prodigioso della poesia latina, da Virgilio a Ovidio, Orazio, Catullo, Properzio, Tibullo, su cui si formano Dante, Petrarca, gli stilnovisti. Appare in un’Europa nel secolo della scoperta del Nuovo Mondo, non casualmente. De Angelis consegna alla letteratura di lingua italiana un’opera fondamentale con una versione poetica che conferma la necessità della presenza dei classici nel mondo, oggi, a patto che il traduttore sappia coglierne lo spirito della lingua e del verso, che è parte dell’anima. Questa traduzione del De rerum natura di Lucrezio (Lo Specchio Mondadori, pagine 528, euro 24) è l’esito di una passione costante di Milo De Angelis, fin dai banchi del liceo, per il mondo lucreziano in cui si intuisce un’origine del fascinoso bilanciamento della poesia deangelisiana: un mondo in cui emergono, alla pari, il nulla e l’infinito. De Angelis, lontano da nichilismo e trascendenza, ha, nel poeta degli atomi, degli dèi indifferenti, della sete d’infinito, un suo maestro e fondamento. Questa pubblicazione è un avvenimento importante, per la riuscita e per il significato: il poeta italiano sottolinea la necessità del latino Lucrezio in questo tempo, si potrebbe dire nella ieri confusa e oggi appiattita postmodernità, e ciò vale per i classici in assoluto. Il saggio di Eliot Che cosa è un classico è un fondamento, nel Novecento: il mondo greco e latino, culminante per lui con Virgilio, manifesta la sua necessità sempre e particolarmente oggi, essendo alle nostre origini. Il poeta contemporaneo 'cerca' nei classici, Pound in Properzio, Bonnefoy e Heaney in Virgilio, Quasimodo nei lirici greci, De Angelis in Lucrezio, come chi scrive in Ovidio, lirici greci, Properzio. È un rapporto con le nostre radici. E il poeta che traduce, pur ammirando tutti i maestri, sceglie quelli che De Angelis definisce «della sua stirpe» e io, similmente, «della stessa costellazione». Il poeta traduttore vuole compiere un’esperienza, un viaggio iniziato in un’opera in cui ha intravisto, subito, e poi nelle ripetute letture, qualcosa di profondo e necessario per la sua esperienza, per la sua anima. Compiere quel viaggio, entrare un quel racconto, ripercorrere dall’interno quell’esperienza. La traduzione è l’ingresso nelle viscere della poesia. Il lavoro di filologi ed esegeti, principalmente accademici, è utilissimo a ogni poeta che traduce non per tradurre e basta, cosa utile anzi necessaria, ma per fare poesia nuova da poesia esistente: tradurre l’anima, che è soffio e lingua. Compi un viaggio dagli esiti ignoti, che è già stato fatto da un altro, con esiti luminosi. E che ti ha tracciato il percorso, ma lasciandoti nel buio. «Nel 1417 avviene una scoperta che cambierà la nostra visione del mondo»: così inizia l’introduzione di De Angelis. Che prosegue: «L’umanista toscano Poggio Bracciolini trova nell’abbazia di San Gallo, vicina al lago di Costanza, il manoscritto del De rerum natura », in italiano Della natura, o La natura delle cose, che sembrava perduto per sempre. Lucrezio, uno dei massimi poeti del pantheon latino, «era rimasto quasi ignoto per secoli e secoli, nonostante tutti conoscessero il giudizio lusinghiero di Cicerone e la sua presenza fosse innegabile nell’opera dei più grandi poeti latini, da Virgilio a Orazio, da Properzio a Ovidio, che lo nomina direttamente». La riapparizione di Tito Lucrezio Caro ha esiti formidabili che si protraggono nei secoli: lo citano e amano Poliziano e Tasso, Bruno e Machiavelli, Leonardo, Galileo, Vico, Botticelli, fino ai suoi «tre innamorati, Shelley, Foscolo e Leopardi». Il poema di Lucrezio che contrappone alla religio la ratio, «che squarcia le tenebre dell’oscurità» che inizia con l’inno a Venere e vede nel sacrificio di Ifigenia, nella guerra di Troia, la prova di indifferenza divina, non sollecita gli spiriti illuministi; il suo atomismo, lo sguardo disperato anche sull’amore negli umani, sono poesia tragica, inconcepibile in una prospettiva desacralizzante. Tragico è il poema, con lampeggiamenti di vita felice, duro e alto lo stile che De Angelis sa ricreare accettando, anzi, scegliendo, di non contrarre il verso italiano per adeguarlo alla concisione di quello latino, operazione che crediamo opportuna in una traduzione da liriche, o antologica, ma che in un poema rischia di perdere la fluvialità e il corso sotterraneo del poema stesso. Il poeta traduttore non vuole perdere nulla, non intende farci perdere nulla. Sceglie un verso lungo, che rivive ogni sfumatura dell’originale, fluisce e duramente canta, e nello stesso tempo ogni verso, nel corso del tempo del poema, ha una autonoma finitezza: impresa ardua, conseguita.