Agorà

Arte. Trento Longaretti: «Vi racconto i miei 100 anni di colori»

Giovanni Gazzaneo martedì 27 settembre 2016

I cieli di Longaretti sono cieli nuovi, nuovi come lo spirito di questo grande artista che oggi compie cento anni e che non si è mai stancato di essere fedele alla sua pittura, di amarla e farne un orizzonte per sé e per chi la contempla. «Sono il nono di tredici fratelli. Loro sono in cielo e io sono qui. Qui a stupirmi ancora della vita, a chiedermi cosa farò domani. Il regalo che chiedo al Signore? Che mi lasci continuare a coltivare il suo dono: dipingere e disegnare. Come iniziano e come finiscono le mie giornate? Da sempre nel modo più semplice, con un grazie». Si commuove quando, tra le opere dei compagni dell’Accademia di Brera, che campeggiano nel suo studio di Bergamo, Morlotti, Cassinari, Kodra, discepoli con lui di Aldo Carpi, gli si indica una tavoletta, raffigurante un paesaggio, datata 1922: già artista a sei anni.

Nato a Treviglio, fin dal primo anno di scuola la maestra Maciocchi lo spinge a coltivare la pittura che appare come la sua vocazione. «Questa facilità nel dipingere stupiva anche me, ma non ne ho mai fatto vanto. L’ho sempre vissuta come un dono e per i doni non c’è merito». Ancora oggi le sue grandi mani, ereditate dai progenitori fabbri, fremono finché non afferrano pennello e tavolozza. Di lui, l’amico Ennio Morlotti diceva: «Nei primi anni di Brera, era considerato un ragazzo prodigio. Faceva allora disegni commossi e personali. Era straordinario il dono dell’assimilazione e traduzione, quasi incosciente, di inquietudini e stilismi, tra Soutine, Modigliani e Carpi». Longaretti mostra un suo autoritratto del 1936: «Sullo sfondo c’è il mio studio di allora, una stanza ricavata nel granaio. Ricordo la malinconia, ero timido e solitario. Sulla parete un violino, avevo provato a suonare, un insuccesso».

Eppure la musica è presente nella sua opera, non solo con la raffigurazione di chitarre, violini e organetti. I suoi quadri più che narrazione sono canto di note silenti e poesia: il suo modo di impastare i colori e di dare forma al sentimento produce una musicalità interna all’opera. Nella sua storia di artista vanta cinque biennali di Venezia, migliaia di dipinti, centinaia di mostre, opere in musei e chiese d’Italia e del mondo, venticinque anni di direzione dell’Accademia Carrara di Bergamo. Ma quello che gli sta più a cuore è l’aver fatto parte della cerchia di artisti prediletta da Paolo VI e l’amicizia con monsignor Pasquale Macchi. Sì, Longaretti è un artista sacro: il sole e la luna insieme, come inseparabili fratello e sorella di francescana memoria, illuminano i cieli delle sue opere. E a volte si moltiplicano, quasi a voler sottolineare come sia il cielo a riempire l’orizzonte e a ispirare la sua poetica. Sotto quei soli e quelle lune prende forma l’umanità dei semplici e la predilezione per gli ultimi, per il popolo delle beatitudini, il vero protagonista della sua opera fin dagli anni Cinquanta.

Questa è la sacralità dell’arte di Longaretti: il cammino è la cifra della sua pittura, nel cammino coglie il destino degli uomini. La terra resta un semplice, ma decisivo passaggio fatto di gioia e fatica, scoperta e dolore, spe- ranza e tradimento, solitudine e amore. Un cammino che ha un senso e una direzione e, per quanto inconsapevoli, ci introduce a un destino di eternità. Nei suoi personaggi (figure allungate, tese verso il cielo ma ben piantate sulla terra o, a volte, pericolosamente in bilico, travolte dall’inquietudine e dal dramma della storia) l’artista lombardo trasfonde l’anima del viandante, la sete di infinito e di felicità, lo spirito di ricerca e quella solitudine che ciascuno porta nel profondo di sé. In queste figure iconiche e poetiche che hanno preso forma già dagli anni Cinquanta non possiamo non cogliere quasi una profezia: il cammino tragico di milioni di migranti in fuga dalle guerre e dalla fame che segnano il nostro presente. Ma anche un invito a un cammino interiore, a una riconquista dello spirito nel segno della predilezione per le cose di lassù. Scrive il priore di Bose Enzo Bianchi nel catalogo della mostra Longaretti lungo un secolo, che si inaugura oggi al museo Bernareggi di Bergamo: «La figura dei viandanti in fuga, dei pellegrini dell’eterno rilancia oggi la profezia di un cammino degli uomini che sia un andare al cuore di sé e dell’altro, ridice oggi a ciascuno di noi la verità, che suona quasi assurda e sembra non più appartenerci, di cupole d’oro che ci attendono perché già sono in noi, che dobbiamo comunque muoverci per andare a trovarle».

Nella sua Biblia Pauperum di girovaghi, saltimbanchi, musicanti, senza patria e famiglie e madri e bambini, cogliamo immediatamente la fragilità. Quella del Cristo nella solitudine (1942), il figlio di Dio nella città deserta dei giorni della guerra; o del Cristo tra i poveri, (1947) che nei poveri trova sostegno. O L’Urlo della madre ( Vietnam) (1965), invocazione a un cielo improvvisamente muto spettatore dello strazio che dilania popoli e terre, richiamo immediato all’ultimo sospiro di Gesù in croce che raccoglie nelle sue terribili parole il senso dell’abbandono e del dolore dell’umanità trafitta dal male e dal suo mistero. Eppure è proprio nell’umana fragilità che la Provvidenza si fa presenza: come nel grande romanzo di Manzoni è lei la vera protagonista della poetica di Longaretti. Perché l’uomo nella sua fragilità non può ergersi a signore del mondo, ma diventa domanda di amore, di aiuto, di Dio. Sembra ci sia un solo approdo possibile per l’umanità in cammino ritratta da Trento Longaretti: l’abbraccio della madre, un amore che non conosce misura, pronto a farsi dono tanto da diventare vita che dà la vita. «Avrò dipinto la madre mille volte – dice l’artista lombardo –. Mi colpisce come i bambini si attacchino a lei, quasi fossero una cosa sola perché la mamma è tutto: bene, protezione, speranza. La Madonna è madre e il suo mistero vive in ogni maternità».