Agorà

INTERVISTA. Loi: «La poesia è cibo spirituale»

Bianca Garavelli sabato 15 maggio 2010
Domani alle 19, nel Battistero del Duomo di Milano, Franco Loi, uno dei più apprezzati poeti italiani, parlerà di «Educazione spirituale della poesia» nella conferenza «Tremare insieme come Dio vuole». L’incontro è promosso dal Vicariato per la cultura e dal Coordinamento dei Centri Culturali Cattolici dell’Arcidiocesi di Milano, curato dall’Associazione Sant’Anselmo e dall’Assessorato alla Cultura. Ne è nata questa conversazione.Un titolo che fa pensare al tremito dell’aria che annuncia l’arrivo dell’amata nella poesia medievale, e al tremare di emozione del poeta. C’è un legame?«C’è e non c’è. È un indice di sensibilità: una persona che sta attenta alla vita ha tante occasioni di tremore. Quello a cui penso è il tremare, o forse meglio il vibrare dell’essenza spirituale che ogni cosa possiede e che dà impulso alla vita. Quando questa vibrazione si prova in due, allora si ha il senso di aver toccato il mistero. È in momenti come questo che si risveglia la consapevolezza del Dio che è dentro di noi. I poeti se ne rendono conto, ma non tutti. La grande importanza dell’arte, non solo della poesia ma anche della musica, per esempio (e la poesia è anche musica) sta in questo: ti fa vibrare in tutto il tuo essere. Il corpo, lo spirito, e anche l’essenza profonda di cui parlavo prima. È come il ripercuotersi di un’onda musicale nell’universo intero: non riguarda solo te e chi ti ascolta. Quando ascoltavo la Passione secondo Matteo di Bach, mi toccava delle corde così profonde che a volte mi scendevano le lacrime, anche se non pensavo a niente».È questa "l’educazione" che la poesia può attuare?«Certo: compito della poesia è portare alla consapevolezza della propria essenza divina. Quando dico "tremare" intendo l’essere travolti da qualcosa che non sappiamo bene che cosa sia. Noi gli diamo dei nomi, come ai colori, ai fiori, alla dolcezza di una stella: gli diamo inesorabilmente una veste corporale, ma sentiamo anche di aver raggiunto le corde divine dentro di noi. Dice Cristo: il regno dei cieli è dentro di voi. È questa dignità che vibra: il Dio che portiamo dentro. Io ho provato, in poesia, l’importanza che ha questo "lasciarsi dire" da ciò che si muove dentro. L’ho provato nei più bei momenti della mia vita. È quello di cui parla Leopardi quando scrive alla sorella Paolina: finalmente sono tornato all’allegrezza dello scrivere poesia. Anche la Cvetaeva diceva che quando scriveva poesia era come se qualcuno dentro di lei volesse disperatamente emergere. È il fenomeno che Dante descrive quando dice "I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, / e a quel modo / ch’ e’ ditta dentro vo significando": quando amore lo ispira ascolta e prende nota. Non è il tuo consapevole io, né la tua sapienza a farti scrivere, ma qualcosa che avviene dentro di te. I momenti della scrittura sono momenti di grande gioia, ineguagliabili: io mi sono sentito unico al mondo. Ma succede anche a chi ascolta: non sa dire perché, gli si risveglia dentro il senso di qualcosa che non sa, o non ricordava. Un tremare dell’amore divino».Nella scuola di oggi si potrebbe fare un investimento sulla poesia?«No. Perché si fa la scuola pensando che sia imparare dai libri, mentre nessuno si preoccupa della ragione fondamentale per cui è nata, far crescere la consapevolezza profonda di sé, il "regno dei cieli" in noi. Lo fa a volte qualche professore bravo: i ragazzi quando lo incontrano se ne innamorano, perché è così difficile che qualcuno parta da loro. La scuola era nata per fare scoprire all’uomo la sua profondità infinita, la spiritualità viva dentro di lui e farla crescere. Don Milani diceva che la scuola c’è quando c’è un maestro. A me nessun professore ha mai spiegato il vero significato di quel "noto" di Dante, messo non a caso tra due virgole, né che cosa ascoltava Dante».Che rapporto c’è fra l’essere poeta e l’attività di critico?«Io sono un critico sui generis: quando trovo un po’ di poesia, cerco di aiutare chi la fa, partendo sempre dalla qualità, ma senza fare dei discorsi letterari. Credo poco nelle linee letterarie, non ho in mente tutto il ciarpame letterario o l’ideologia attraverso cui alcuni considerano la poesia. Mengaldo mi ha definito "la voce del sottoproletariato milanese", Fortini diceva che ho una vena anarchica: non so perché. Certi critici o partono dall’ideologia o dai canoni della letteratura. Invece io parto da quello che c’è scritto e ne parlo».Che cosa pensi delle polemiche sulle antologie di poesia? È giusto chiedere spazio per i poeti più giovani?«Non credo che facciano bene alla poesia: ritengo che dietro le polemiche si nasconda la vanità. Non si può chiedere attenzione per i poeti. Faccio un paragone col ciclismo: una volta c’erano i grandi corridori, e c’erano i gregari. Che magari erano bravissimi, però non chiedevano più attenzione, e nessuno proponeva che diventassero i leader della squadra. Restavano gregari, e tutto procedeva. Chi fa polemiche sulla poesia non ha il senso di quanto sia importante la poesia. Non è un poeta. Mi sembra che la polemica sia un segno della decadenza della nostra civiltà, come le scenate dei politicanti. E non credo che neanche le antologie servano a molto. Io mi sono lasciato convincere a farne una, ma non lo rifarei: le scelte di un’antologia sono troppo parziali, legate alle conoscenze personali».