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Intervista. Defez: La ricerca in Italia ha bisogno urgente di un nuovo rinascimento

Silvia Camisasca giovedì 9 maggio 2019

Terzo classificato al Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica Giancarlo Dosi 2018, Premio Speciale e primo della categoria Scienze giuridiche, economiche e sociali: forte dei 3 prestigiosi riconoscimenti, Scoperta. Come la ricerca scientifica può aiutare a cambiare l’Italia (Codice Edizioni, pagine 168, euro 17) di Roberto Defez, può dirsi tra i favoriti al Premio Galileo, che verrà assegnato a Padova il prossimo 10 maggio. Con alle spalle oltre 40 pubblicazioni, 5 brevetti e 2 marchi d’autore, esperto di sviluppo dell’agricoltura e politiche di ricerca, lo studioso dell’Istituto di bioscienze e biorisorse del Cnr di Napoli ( Il caso Ogm - Carocci Editore) con questo libro guarda ad un’Italia smarrita e delusa, spaventata e credulona, che annaspa dietro a fake news e improvvisati fattucchieri. È uno spaccato lucido e impietoso sullo stato della ricerca scientifica in Italia.

Il titolo, Scoperta, non sembra riferirsi tanto al successo di un’idea, che apre a nuovi scenari, quanto a un disvelamento: la ricerca scientifica messa a nudo, senza più coperte.

Infatti. È un viaggio 'dietro le quinte' del mondo della scienza, che fa tappa su aspetti metodologici, valore etico-sociale, legami con i sistemi demo-cratici, percezione collettiva di messaggi e contenuti. Si citano casi di pseudoscienza indicativi di quanto si possa minare la credibilità degli scienziati nel nostro Paese, in cui spesso ci si lascia confondere sul confine tra vero ed esoterico. Di fronte a problemi complessi fingiamo di credere che esistano soluzioni semplici che non ben identificati 'poteri' ci tengono all’oscuro. Ma la ricerca scientifica è la più importante e rivoluzionaria forma di cultura, frutto della democrazia.

Intanto esiliamo generazioni di menti brillanti: uno spreco di risorse, considerando che la ricerca scientifica è anche il miglior investimento economico di una democrazia.

Abbiamo formato, e poi confinato, un esercito di giovani: la comunità scientifica non può assistere oltre. Non possiamo accettare altri compromessi al ribasso: gli scienziati devono prima pretendere e poi restituire di più al Paese. Scindere la scienza dal nostro quotidiano significa snaturarla, subire il futuro, abbandonare il Paese al declino.

Lo stato in cui versa la ricerca in Italia è noto: pochi quattrini nei grandi progetti, nessun finanziamento agli scienziati pubblici, blocco delle carriere, un numero irrisorio di bandi e concorsi. Gran parte dei premi Nobel nati in Italia, hanno fatto ricerca all’estero.

Quel che è peggio è che non premiamo il merito. E di questo incolpo noi scienziati. Ripudiamo dal sistema i veri ta- lenti, per poi elemosinare briciole da amministratori e politici. L’Italia della ricerca è economicamente fallita. Impieghiamo solo la metà dei fondi comunitari assegnati a causa dell’incapacità di rispondere ai criteri internazionali di trasparenza. Come se non bastasse i fondi sono ripartiti in base a procedure rispettose dell’appartenenza a clan, aree geografiche o consorzi, piuttosto che all’effettiva capacità dei richiedenti. Ciò detto, non mi accodo alla schiera di chi batte cassa: stanziare maggiori finanziamenti, senza prima riformare le regole e chiudere le falle del sistema acquisendo una visione di medio termine, tesa a creare occupazione altamente qualificata è solo contropro-ducente.

Anche l’approccio alla divulgazione e al finanziamento dei musei andrebbe rivisto: scoraggiando la conoscenza di innovazioni e storiche conquiste si aprono voragini tra pubblico, giovani e cultura scientifica. Gli scienziati sono colpevoli di essersi adeguati a un degrado insopportabile, tanto da rendersi impalpabili?

Muovendo dall’autocritica il mio libro candida i più autorevoli scienziati a 'consulenti' di media, magistratura e politica, rivolgendo una sfida e una proposta alla rappresentanza culturale del Paese. Occorre costituire una delegazione, in seno alla comunità scientifica, aperta al confronto con i protagonisti della scena pubblica, rispetto ai quali sappia imporre il ruolo della scienza. In questa arena gli scienziati hanno finora agito isolati e inascoltati, quando occorrerebbe allestire albi di esperti, disciplina per disciplina.

Ma ora chi sono i consulenti tecnici di magistrati, politici e giornalisti? Su quali testi si documentano, per procedere alle decisioni esecutive?

Questo è il problema! Gli scienziati hanno il diritto-dovere di essere riferimento in questi delicati passaggi. Devono poter proporre e fornire linee guida e d’azione. Un lavoro paziente, gratuito e lungimirante, proprio dell’impegno disinteressato e super partes di chi tiene alle sorti dello Stato e del bene comune.

Si potrebbe estendere tale metodo oltre l’ambito proprio della scienza, questo riformerebbe molti settori, riducendo margini discrezionali e ampliando gli spazi di analisi dei fatti per quello che sono.

Si potrebbe, certo! Un problema accuratamente descritto da numeri, statistiche e dossier. Lasciamo comunque alla politica l’ultima parola sul da farsi, ma avendo chiare le strade percorribili. Quel che manca in Italia, in questo frangente storico, è l’oggettività analitica di quanto è accertato, e gli scienziati sono stati lungamente selezionati per rispondere a questa necessità. Basterebbe una classe di scienziati meno individualista e capace di farsi ascoltare. E questo è un termometro di democrazia. Non dimentichiamo che nei regimi totalitari la voce più flebile è quella degli scienziati e che nel caos prevalgono le grida dei più forti, non dei più autorevoli.