Agorà

Le 7 opere di miserircodia/6 - Visitare i carcerati. Tutte le voci della libertà

Alessandro Zaccuri giovedì 23 luglio 2015
Il quartiere è quieto e ordinato, la parrocchia luminosa e impreziosita da icone. Ma “la Dozza”, a Bologna, continua ad essere quello che San Vittore è a Milano, Regina Coeli a Roma, Poggioreale a Napoli: un carcere nel quale si entra e dal quale si rischia di non uscire mai. «La prigione è ancora un marchio difficile da cancellare – ammette don Giovanni Nicolini –, la parte più importante del nostro lavoro consiste nel rendere possibile una liberazione che poi duri nella quotidianità».  La parrocchia di Sant’Antonio da Padova e la Casa circondariale distano poco più di mezzo chilometro l’una dall’altra, eppure la sensazione è che non ci sia alcun distacco, alcuna separazione fra le due realtà. Qui, del resto, tutto tende a confondersi gioiosamente, imprevedibilmente, come le voci del Progetto Papageno, il coro nato nel 2011 per volontà di Claudio Abbado. La conoscenza tra il celebre direttore d’orchestra e don Nicolini risale agli anni in cui il sacerdote ricopriva l’incarico di vicario episcopale per la carità nella diocesi di Bologna. «Un giorno – ricorda – Abbado mi telefonò per dirmi che voleva bene ai poveri. “Mi fa molto piacere”, gli risposi. E cominciammo a dialogare».  Inserito nel più ampio contesto dell’Orchestra Mozart e diretto da Michele Napolitano, il Progetto Papageno riunisce detenuti e non detenuti. Prove una volta alla settimana, nella mattinata del lunedì, e concerti in grande stile, aperti a tutta la cittadinanza. Il più recente si è svolto il 4 luglio nella “Chiesa Nuova” del carcere, in programma brani dei Beatles e canti delle diverse tradizioni popolari, dall’Emilia al Brasile, senza dimenticare l’Ave Verum di Mozart, uno degli spartiti più amati da Abbado. Un successo, certo. «Ma l’aspetto più bello – commenta don Nicolini – è che nel coro le voci si mescolano, quelle dei carcerati non si distinguono più da quelle dei volontari che li affiancano».  È una storia singolare, questa della Dozza, e non solo per la vicinanza fisica alla prigione. Coincide quasi interamente con la vicenda della Famiglie della Visitazione, comunità ispirata all’esperienza e alla regola di don Giuseppe Dossetti. Il primo nucleo, che già comprende laici e consacrati, si forma nella seconda metà degli anni Settanta, nel periodo in cui don Giovanni (mantovano, classe 1940, laurea in Filosofia alla Cattolica e in Teologia alla Gregoriana, a lungo diacono prima di essere ordinato sacerdote), è parroco a Sammartini, una piccola località nei pressi di Crevalcore, nel Bolognese. «Il nostro desiderio era di condurre una vita monastica, di contemplazione – confessa il sacerdote –. Non avevamo messo in conto di occuparci dei poveri. I poveri, però, sono venuti a cercarci e questo all’inizio ci ha scosso, ci ha costretti a interrogarci. A un certo punto i nostri dubbi si sono trasformati in preghiera. Abbiamo chiesto al Signore di aiutarci a capire che cosa volesse da noi».  La risposta non si è fatta attendere e, con il passare del tempo, è divenuta molto articolata. E della risposta, in ogni caso, i carcerati hanno sempre fatto parte. I primi episodi di accoglienza risalgono proprio agli anni di Sammartini, dove adesso opera un altro dei sacerdoti della comunità, don Francesco Scimè, e dove ha sede la cooperativa di cartotecnica rivolta a persone in difficoltà. Un laboratorio della “Sammartini” si trova anche nello scantinato di Sant’Antonio alla Dozza. «Esattamente sotto l’altare», sottolinea Martino, il fratello della Visitazione, responsabile di un’iniziativa destinata alle detenute del carcere, e cioè il laboratorio sartoriale “Gomito a gomito”, che raccoglie i tessuti scartati dalle industrie e li utilizza per realizzare borse e pupazzi, gonne e vestiti. Le spese vive si riducono ai materiali di consumo, come filati e cerniere. Nessun contributo pubblico al di fuori delle agevolazioni proposte dalla legge Smuraglia, che dal 2000 regola l’attività lavorativa dei detenuti. Tra i committenti anche un colosso come Ikea, dal quale ogni tanto arrivano altre rimanenze di stoffa. «In questo momento abbiamo quattro dipendenti a tempo indeterminato – spiega fratel Martino –. I nuovi inserimenti vengono concordati con i servizi sociali tenendo conto del-l’effettiva utilità del percorso di formazione ». A parità di requisiti, insomma, la preferenza viene assegnata a una persona più giovane e con una previsione di pena più breve: imparare un mestiere è infatti un elemento  fondamentale per il reinserimento nella vita sociale. «La nostra non è un’attività di assistenza – insiste fratel Martino – , quando ci troviamo in laboratorio io mi comporto anzitutto da datore di lavoro. Il rispetto delle regole, l’esecuzione coscienziosa dei compiti assegnati sono fattori decisivi per il cammino di rinnovata consapevolezza che le detenute sono chiamate ad affrontare».  Questo non significa che l’aspetto più propriamente religioso sia trascurato. Da un paio d’anni, da quando il carcere è rimasto senza cappellano, diversi parroci della città si alternano per celebrare Messa alla Dozza. Don Nicolini, da parte sua, si divide tra la casa circondariale e la chiesa dell’Ospedale Sant’Orsola, di cui è parroco dal 2009. Predicatore affascinante e biblista di straordinaria profondità, in prigione anima i cosiddetti “Gruppi di Vangelo”, frequentati anche dai non cristiani. «Di recente – dice – siamo riusciti a coinvolgere i musulmani, proponendo una serie di incontri che permettessero di confrontare alcuni passaggi della Scrittura con il testo del Corano». Non è uno stratagemma che mira alla conversione. «Anche perché – aggiunge don Nicolini – la frequentazione del carcere aiuta a comprendere che la conversione riguarda in ogni momento ciascuno di noi, indipendentemente dalla fede che professiamo. Tutta la Bibbia è attraversata da un messaggio di liberazione, ma bisogna fare attenzione a non semplificare: in gioco, non c’è soltanto l’affrancamento di Israele dalla schiavitù, ma l’emancipazione dal peccato, che è in primo luogo dipendenza, costrizione, durezza di cuore». In passato è capitato che qualche dipendente della sartoria ottenesse di scontare la pena ai domiciliari in parrocchia, che diventava così anche luogo di lavoro. La reazione del quartiere è sempre stata molto generosa, assicura suor Lucia, che per quasi un decennio ha animato alla Dozza la “Scuola paterna”, originale strumento ideato dalla Visitazione per contrastarae la dispersione e l’abbandono scolastico.   Don Nicolini annuisce e, abbozzando un sorriso, si lascia scappare che da queste parti non passano solo i carcerati. «Qualche tempo fa – racconta – abbiamo ospitato per diversi mesi una roulotte di rom sul sagrato della chiesa. Ecco, in quel caso la situazione era un po’ più delicata». I poveri arrivano quando vogliono e come vogliono. Questo è sicuro, come è sicuro che anche domattina la sveglia di don Giovanni e degli altri della Visitazione suonerà alle quattro meno un quarto, in tempo per il Mattutino. «La nostra vita è questa, questa è la nostra vocazione», conclude. Ascoltandolo, non si può fare a meno di riconoscere la voce di un uomo libero.