Agorà

Tradizioni. Leopardi, il primo tifoso del pallone

Fulvio Fulvi giovedì 28 luglio 2016
Anche Giacomo Leopardi, interrompendo ogni tanto i suoi studi “pazzi e disperatissimi”, andava allo stadio a vedere una partita. Nei “dì di festa” lasciava la casa di Recanati per recarsi in carrozza nelle vicine Macerata o Treia a tifare il suo idolo, il mitico Carlo Didimi, il Pelè del tempo. Anzi, il Maradona, per come veniva acclamato dalle folle di appassionati dello sport più popolare allora in Italia e nell’Europa centrale: che non era il calcio, però – importato da noi solo ai primi del Novecento dai marinai inglesi arrivati a Genova – ma il pallone con il bracciale, diretta filiazione della pallacorda, nato in epoca rinascimentale e assai diffuso fino al 1920 soprattutto nelle Marche, in Piemonte, Emilia-Romagna, Lazio e in alcune zone del sud (e pare per questo che il gioco svolse un ruolo importante nel faticoso processo di unità della nazione che stava nascendo). Uno sport atletico, e soprattutto psicologico, simile al tamburello, che consiste nel far passare una palla in pelle di manzo (39 centimetri di circonferenza) nel campo degli avversari facendola rimbalzare su un alto muraglione. Un “battimuro”, in pratica, nel quale si contrappongono due squadre formate da tre giocatori ognuna (battitore, spalla e terzino) i quali indossano a un polso una fascia in noce (o in altro legno leggero) sulla cui superficie spuntano 105 denti: è il bracciale che serve a colpire la sfera. Il punteggio è simile a quello del tennis, con “game” utili a conquistare “set”, volendo usare il linguaggio tipico dello sport con la racchetta. Vince chi sbaglia meno. Si giocava negli sferisteri, campi larghi 16 metri e lunghi 86 affiancati da un muro d’appoggio a sua volta delimitato da una rete. Sono chiamati così perché destinati agli sport che si giocano, appunto, con la palla, un oggetto dalla forma sferica. E proprio lo Sferisterio di Macerata (tra i pochi ancora rimasti in Italia e conosciuto oggi soprattutto come teatro dove si tiene un’importante stagione lirica estiva) era il luogo di svago prediletto dal poeta recanatese il quale, come noto, compose in onore del treiese Carlo Didimi (1798-1877), suo coetaneo e anch’esso conte di antico lignaggio, la canzone civile A un vincitore nel pallone, ultimata nel 1821: cinque strofe di tredici versi ciascuna scritte dal ventitreenne Giacomo sul modello delle odi oraziane. Un personaggio, il magnanimo campion, che il poeta conobbe personalmente e definì, nel Canto in questione, di gloria il viso e la giocosa voce, garzon bennato.E che il “pallone” con i suoi “eroi” potesse servire da sveglia e collante per la montante nazione italica, Leopardi lo aveva capito fino al punto di inneggiare all’amico giocatore: «Te l’echeggiante arena e il circo, e te fremendo appella ai fatti illustri il popolar favore; te rigoglioso dell’età novella oggi la patria cara gli antichi esempi a rinnovar prepara». Leopardi evoca il gioco del pallone al bracciale come metafora delle capacità fisiche e delle virtù morali e civili degli italiani: il battitore scalda l’arena che da luogo quieto ed elitario si fa, grazie a lui stesso, rumorosa, «echeggiante», appunto, cioè popolare. Didimi, mazziniano convinto, passò dei guai a causa del suo impegno politico, ricercato perfino dalle guardie pontifice per la sua attività ritenuta “sovversiva”. Ma quando venne eletto al Soglio di Pietro il senigalliese Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti) fu perdonato e riabilitato, con tanto di impiego in Comune. Un tributo, forse, anche per i suoi gloriosi trascorsi sportivi: è stato, infatti, il “pallonista” professionista (“pilibulus”) più forte della storia nel ruolo di battitore, un campione di “sudata virtude” strapagato e osannato dal pubblico che ne ammirava soprattutto i lunghi e precisi lanci e i plastici movimenti. Si dice che nel maggio 1830 il buon Carlo avesse richiesto per la partecipazione a una sfida (paragonabile ai derby calcistici dei tempi nostri) un compenso superiore ai 600 scudi romani (che sarebbero quasi 40mila euro di oggi), cifra esorbitante se pensiamo che un maestro elementare dello Stato Pontificio guadagnava allora uno stipendio dai 25 ai 60 scudi all’anno. Ed era talmente imbattibile che a un certo punto gli fu vietato di giocare in tutti i campi della Marca, “per manifesta superiorità”. Così, lui, dice la leggenda, sarebbe andato lontano, a Forlì e sotto falso nome, per farsi “assumere” da una squadra con un cachet meno esoso: ma un tifoso vedendolo giocare se ne accorse e denunciò: «Quello è il Didimi di Treia, il più forte di tutti....». Carriera finita, ma in gloria. A Treia, paese natale del Didimi, ogni anno dal 1978, nella prima settimana di agosto, ha luogo la rievocazione storica “Disfida del bracciale”, che si tiene in onore del leggendario campione, nell’arena a lui intitolata, su iniziativa della Pro loco e dell’Amministrazione comunale. Ma la tradizione è tenuta viva anche da un campionato nazionale che, seppur con regole più moderne, continua a far trepidare gli appassionati di Treia, la squadra che ha vinto più scudetti negli ultimi cinque anni.