Agorà

A Roma. Leopardi a teatro, l'infinito mistero

Fulvio Fulvi mercoledì 23 luglio 2014
Il poeta e l’attore. Il cantore dell’umana disperazione e l’interprete appassionato dei suoi sentimenti più profondi. Giuseppe Pambieri torna a recitare il genio e la sregoletezza del grande pensatore di Recanati nello spettacolo scritto e diretto da Giuseppe Argirò. Sarà rappresentato il 29 luglio ai Giardini della Filarmonica Romana L’infinito Giacomo – Vizi e virtù di Leopardi, il monologo sulla vita del poeta messo in scena per la prima volta nell’antica arena della siciliana Segesta in una notte d’estate del 2011 ed ora in cartellone nella XXI edizione della rassegna «I solisti del teatro» in programma fino al 6 agosto nel verde scenario dell’Accademia di via Flaminia a Roma. «Raccontiamo la storia di un uomo innamorato della vita che nelle sue opere ha sempre reclamato un grande bisogno di amore« commenta Pambieri. È una biografia romanzata e affettuosa, quella messa in piedi da Argirò che, senza alterare il senso dei brani proposti (tratti da Epistolario, Zibaldone, Operette morali e Canti), ribalta l’immagine di un Leopardi «pessimista cosmico» suggerendone un’altra plausibile ma di segno opposto: il poeta della speranza, aperto verso qualcosa di inimmaginabile ma possibile, anzi, necessario alla sopravvivenza: il Mistero. «Perché il suo, semmai, era un pessimismo rivolto contro se stesso a causa della disgrazia accanitasi sul suo corpo, alla sofferenza, alle malattie, alla deformità... Il suo 'pessimismo' è sempre tratteggiato da un’aggetivazione ironica e da un tono beffardo – precisa Pambieri – perché Leopardi ha sempre avuto un’idea realista dell’uomo, a parole nega Dio ma, al contrario di Nietzsche, dice che all’uomo serve credere e avere un propulsore che lo faccia andare avanti: per questo lui ha sempre tentato qualcosa, fino all’ultimo, inseguendo la verità, cercando di aggrapparsi a una speranza ». «Secondo me, dentro l’Infinito, che recito alla fine della piéce con voce rotta dalla commozione, c’è tutto: il grido d’aiuto all’amico Totonno Ranieri e un affidarsi alla totalità della realtà in un lucida visione dell’esistenza umana, senza escludere nulla e senza compiacimenti di sorta» dice l’attore lombardo. Il celebre finale è struggente ed esemplificativo, rimarca Pambieri: «Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in questo mare». L’uomo è niente, sembra affermare Leopardi, la sua grandezza consiste solo nel rapporto con l’Infinito. Tutta l’opera del grande recanatese è come una preghiera, un grido umano vero. Ma il grande Giacomo non è raccontato tutto nella sua poesia, il recital tocca anche gli aspetti più intimi e personali della sua vita, i suoi piaceri terreni come l’amore smodato per il cibo, i gelati, le paste alla crema e la cioccolata e l’idiosincrasia per l’acqua calda: «La detestava: 'Non voglio farmi bollire' diceva 'non ho bisogno di farmi il bagno una volta alla settimana, devo pensare allo studio matto e disperatissimo'. Inoltre, ogni volta che doveva partire dal 'natìo borgo selvaggio' stava male – prosegue Pambieri –, gli veniva la febbre, anche se poi si lanciava in viaggi che lo esaltavano, come quello a Napoli, l’ultimo approdo, 'un bordello all’aria aperta' dove il poeta morirà non senza averne assaporato i piatti più succulenti e aver consumato piacevoli  passeggiate nelle bellezze dell’odiata natura». Ci appare dunque un Leopardi fragile, ansioso, spesso chiuso in se stesso e scostante, ma sempre pervaso da un inesauribile desiderio di vita e di amore. Una potente ricerca affettiva e di significato, un afflato dal valore universale che trapassa le coscienze e attraversa i secoli giungendo, con l’originaria limpidezza, fino a noi. Fannno da sottofondo alla lettura di Giuseppe Pambieri musiche di Mozart, Bach, Beethoven, Chopin e Rachmaninov.