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Il caso. Le “vite a metà” dei traduttori italiani

Francesco Riccardi mercoledì 4 dicembre 2019

La traduzione di un libro ha un costo e un valore. Anzi ha un duplice costo e un altrettanto doppio valore. Perché accanto al costo economico che l’editore paga per rendere leggibile e pubblicabile un volume scritto in una lingua diversa, c’è specularmente il costo umano e professionale messo a disposizione dal traduttore, da chi cioè diventa coautore di un’opera scritta da altri e la rende fruibile a chi non conosce la lingua originale. Dallo spendersi di questi due costi si sviluppa un duplice valore: quello economico per entrambi i soggetti coinvolti e, soprattutto, un plusvalore culturale a beneficio dei lettori, potenzialmente di tutti. Perché questa sorta di formula magica possa produrre i suoi effetti benefici, però, i diversi elementi devono essere ben dosati e stare in buon equilibrio. Un equilibrio che, invece, negli ultimi anni sembra essersi definitivamente rotto. Almeno stando a quanto denunciano i traduttori editoriali, tra le figure della filiera del libro che stanno soffrendo di più non solo gli effetti generali della crisi, ma una svalutazione della necessità del loro lavoro e, di conseguenza, di quanto viene corrisposto, oltre che un problema di inquadramento professionale e trattamento previdenziale.

Temi sui quali il sindacato dei traduttori Strade, confluito nella Slc-Cgil, intende promuovere un confronto, a cominciare dall’incontro “Cultura in traduzione: quanto costa e quanto vale? Verso una produzione etica e sostenibile” all’interno di “Più libri, più liberi” venerdì a Roma (La Nuvola, Sala Sirio, ore 15-17). Il primo elemento negativo sottolineato è la progressiva diminuzione delle opere tradotte. Secondo il rapporto Aie 2019, infatti, nel corso degli ultimi 15 anni la quota di libri tradotti pubblicati nel nostro Paese è passata dal 25 al 13,5%. E se l’offerta di titoli decresce, cresce nel contempo la domanda di lavoro da parte dei traduttori, anche giovani e non sempre professionali, disposti a scrivere pur di esordire.

La conseguenza, scontata, è che gli editori hanno ampi margini per ridurre i compensi e “tirare” al massimo sul prezzo. Risultato: la cartella di 2.000 battute – che è l’unità di misura per i traduttori per la quale teoricamente occorre un’ora di lavoro – viene pagata in media non oltre i 14 euro. Lordi, ovviamente. E in regime di diritto d’autore. «In realtà, negli ultimi anni la situazione è peggiorata, con offerte davvero poco dignitose e francamente inaccettabili calate fino a 4 euro a cartella», spiega Anna Rusconi, 34 anni di esperienza come traduttrice letteraria per le più importanti case editrici italiane. «Un fenomeno in crescita è quello, in linea di principio ottimo, di ritradurre molti grandi classici liberi da diritti, e questo per risparmiare sui costi. Così magari ti arriva la proposta di tradurre un’opera di Francis Scott Fitzgerald per un compenso forfait di 2000 euro all inclusive», racconta Rusconi. Ad avere, per così dire, il coltello dalla parte del manico sono ovviamente gli editori. «Con i piccoli che generalmente pagano poco perché sono piccoli e i grandi che spesso pagano ancor meno perché godono di maggiore potere contrattuale». In questo quadro piuttosto fosco, esistono ovviamente le eccezioni e le case editrici attente a una maggiore equità dei compensi, «ma difficilmente si va oltre i 16-17 euro a cartella», dice ancora Anna Rusconi «che rappresentano comunque solo una soglia minima per remunerare un lavoro che va ben oltre l’impegno di un’ora per cartella. Se calcolo che ogni pagina prima la leggo, poi la traduco, la confronto col testo originale a fronte e infine la riguardo ulteriormente per migliorare la prosa in lingua italiana, non si tratta semplicemente di battere tasti al computer per 60 minuti...».

I traduttori editoriali, inoltre, lavorano in regime di cessione dei diritti d’autore e gli editori tendono a inserire nei contratti il limite massimo previsto dalla legge, che è 20 anni. Sul piano fiscale subiscono una trattenuta a titolo di anticipo d’imposta del 20% sul 75% del compenso lordo, ma non essendo lavoratori autonomi con partita Iva non possono di fatto scaricare alcuna spesa – neppure l’acquisto del computer col quale lavorano e la formazione necessaria – e soprattutto non viene versato per loro alcun contributo pensionistico. Così non solo sono “scoperti” in caso di malattia ma, se non provvedono personalmente con versamenti integrativi, non hanno diritto ad alcuna pensione. Previdenza integrativa che è ben difficile da costruire quando il reddito medio di un traduttore professionale si aggira intorno ai 15mila euro lordi l’anno. Per capirsi, difficilmente un traduttore con decine di anni di esperienza riesce a incassare più di 1.500-1.700 euro netti al mese. Una condizione che li ha spinti, tra l’altro, a pubblicare le foto dei loro volti, coperti a metà dalle proprie dichiarazioni dei redditi con le cifre reali incassate. Una metafora di come, con certi compensi, si possa vivere, per così dire, solo “una vita a metà”.

Secondo il sindacato Strade, come per tutte le crisi, se ne esce solo insieme. Non solo unendo le forze dei traduttori, ma aprendo un confronto più ampio con tutti gli attori della filiera: dagli editori ai rappresentanti politici e istituzionali. Ad esempio immaginando contributi pubblici per le traduzioni non solo dei libri italiani all’estero ma anche di libri di autori stranieri di particolare valore. Più in generale mirando a una minore quantità di titoli da editare – che spesso restano invenduti – ma con una migliore qualità, anche di traduzioni. Quanto al rapporto tra editori e traduttori c’è chi, stando contemporaneamente da una parte e dall’altra della barricata, pensa che si possa «innescare un circolo virtuoso agendo lungo due direttrici: modelli standard di contrattazione e maggiore coinvolgimento delle persone». «Abbiamo cominciato a utilizzare il modello proposto da Strade – dice Paola Del Zoppo, direttrice editoriale di Del Vecchio Editore e traduttrice, oltre che ricercatrice in germanistica presso l’Università degli Studi della Tuscia – prevedendo non solo compensi “equi” ma anche contrattando il limite del diritto d’autore, con risultati soddisfacenti sia per l’editore sia per i traduttori. Ma soprattutto penso che con queste figure professionali vada costruito un rapporto più stretto, non limitandosi alla singola traduzione, ma all’interno di una squadra farli giocare in diversi ruoli: oltre che nella traduzione anche nella scelta dei titoli da editare, nella revisione, correzione, eccetera ». Gli ingredienti di quella sorta di formula magica che permette l’edizione di un libro possono trovare un nuovo equilibrio per non arrendersi ad essere lost in translation.