Agorà

Musica. Le note jazz «mai ammucchiate» di Gianni Basso

Andrea Pedrinelli sabato 17 agosto 2019

Gianni Basso (Asti, 24 maggio 1931 – Asti, 17 agosto 2009)

In un Paese che spesso dimentica crediamo sia doveroso, dieci anni dopo, ricordare un jazzista dello spessore di Gianni Basso, sassofonista e compositore astigiano scomparso il 17 agosto 2009 dopo una ricchissima carriera artistica iniziata addirittura quindicenne in Belgio (vi si era trasferito col padre minatore) nella big band di Faisant e in quelle Usa lì di stanza nel dopoguerra. Era il ’46 e pochi anni dopo Basso, rientrato in Italia, avrebbe dato il la ad una delle principali vicende artistiche del jazz nostrano: fra la storica collaborazione col trombettista Oscar Valdambrini, esperimenti vari (incise un lp saxcoro- orchestra) e collaborazioni con Kenny Clark, Thad Jones o Sarah Vaughan. Nel tempo Basso, classe ’31, ha licenziato molti lp storici ( Miss Bo, For Lars Gullin, Blue woods) lasciando un’impronta di diffusa simpatia nonché, soprattutto, «d’onestà e rispetto », come dice il figlio Gerry. Il quale non si chiama così per caso bensì in onore di Gerry Mulligan, grande sassofonista newyorchese amico del padre. «E avrei potuto anche chiamarmi Chet, forse Baker gli era pure più vicino», ride il 61enne, che dall’82 lavora nel mondo della vendita dei dischi. «Ma comunque rispetto ai miei due fratelli nati negli anni Sessanta/Settanta sono stato più fortunato: perché Baker e Mulligan li ho incontrati, e ho visto tanti miti suonare con papà».

Suo padre ha sempre vissuto la musica come passione?

Quasi. L’amore per lei gli era nato ascoltando la radio a fine guerra, e solo lavorando nell’orchestra Rai dovette cedere a farne un lavoro. Però resistette poco: non amava Canzonissima e dintorni, così pur giocandosi una pensione migliore lasciò l’incarico. La famiglia invece non la sacrificò mai, per suonare: anche se mamma ebbe nel sax un bel concorrente…

Asti, dov’è nato e morto, era importante per lui?

Fu un amore contrastato: ci tornammo ad abitare vicino, ma il suo sogno era farne una culla europea del jazz con un’università come quelle di Graz o Mannheim. Però gli amministratori locali, di destra come di sinistra, non l’hanno mai voluto ascoltare.

Era stato molto segnato dall’emigrazione in Belgio?

Fu fondamentale, per lui. Gli aprì la mente e lo fece giocare sempre in Serie A come fosse americano.

Che ricordi ha del periodo di splendore del papà?

Quando nacqui nel ’57 lui era già a Milano e suonava alla Taverna Mexico: lì conobbe Ellington e Chet, ed anche Leonard Bernstein ci andava per sentire i sette-otto giganti del jazz che avevamo allora. Fu quello il suo periodo migliore: solo che i media non aiutarono, per loro esisteva solo Gianni Morandi.

Suo padre con Valdambrini fece comunque la storia…

Avevano intesa oltre l’affiatamento musicale: erano cresciuti insieme, ci si frequentava. Eppure erano diversissimi, Valdambrini timido e papà estroverso.

Che musica ascoltava, suo padre?

Be-bop, ragtime… Non aveva pregiudizi: l’unico stile che gradiva poco era il free. E nei Settanta soffrì perché la domanda del mercato andava proprio verso quel genere; però non perse mai la sua originalità.

Con chi amava suonare, oltre che con Valdambrini?

Con Piana, Cerri, Azzolini, Cuppini… E Sellani: persona meravigliosa, jazzista internazionale. Era proprio in un giro straordinario: andavamo spesso a San Siro anche se papà tifava Toro e mi ritrovavo con Lina Volonghi, Gino Bramieri, Walter Chiari…

A quale disco dei suoi era più affezionato?

A un paio di incisioni con Oscar e all’lp Rca datato ’62 del sestetto con Valdambrini, Piana, Azzolini, Sellani e Bionda The best modern jazz in Italy, che consentì loro d’essere i primi italiani a un festival jazz Usa. Fu un riconoscimento, e anche una svolta.

Aiutò molti giovani: ma aveva un pupillo?

No, amava aiutarli. Negli anni Ottanta a Torino creò pure un’orchestra, lanciando molti ventenni. E Francesco Cafiso lo aiutò quando aveva dieci anni.

Per il decennale sono usciti il triplo cd A la France (Philology) e il libro di Armando Brignolo Una vita con il sax (Fabiano). È previsto altro?

Per ora no; e per il cd devo ringraziare la Ird, che mi aiutato molto a rimettere in circolo tre bei dischi d’una ventina d’anni fa di repertorio francese. Di libro ce n’è un altro, Il jazz secondo Gianni Basso di Sandra Scagliotti: contiene la sua visione del jazz e dei suoi protagonisti storici.

Che eredità ha lasciato Gianni Basso alla musica?

Non ammucchiare note. Lui era sempre pulito, anche improvvisando: e vedo che tanti l’hanno seguito.

L’eredità umana che ha lasciato a voi figli qual è?

Essere onesti e aver rispetto del prossimo. Vede, papà non ha faceva la star neppure quando poteva: con l’esempio, ci ha insegnato umiltà e pacatezza.