Agorà

Intervista. Le foreste perdute di Perrin

Angela Calvini lunedì 5 ottobre 2015
Prima è toccato ai cieli visti dalla prospettiva privilegiata degli uccelli in volo del Popolo migratore, poi alle acque più profonde e ai suoi misteriosi abitanti in Oceani, adesso è giunto il momento di tornare sulla terra, alla ricerca delle grandi foreste scomparse d’Europa nel prossimo grande documentario francese per il cinema Les Saisons (Le stagioni), in uscita il 27 gennaio in 550 sale in Francia e poi in tutto il mondo. Un’altra opera di grande respiro sulla natura, che promette di sbancare il botteghino come i due film precedenti, tutti prodotti e diretti da Jacques Perrin (ora con Jacques Cluzaud) precursore del genere del documentario kolossal, che unisce rigore scientifico e spettacolarità da film. «Fare un film sugli animali vuol dire raccontare un mondo pieno di vita, e per avvicinarlo al grande pubblico occorre puntare sulle emozioni. L’emozione è speranza e noi raccontiamo l’estrema gioia di vivere nella foresta», spiega in esclusiva ad Avvenire Perrin. Lo incontriamo al Grimaldi Forum di Montecarlo, in occasione della pre-anteprima mondiale del film alla presenza del principe Alberto II, venerdì sera, durante l’ottava cerimonia di premiazioni della Fondation Prince Albert II de Monaco. La Fondazione, che si occupa della salvaguardia della natura del pianeta, ha sostenuto, insieme alla Fondazione Bettencourt e all’Unione Europea Les Saisons, come già aveva fatto in precedenza con Oceani.Nello sguardo del 74enne Perrin riconosciamo ancora quello intento a scrutare inutilmente l’orizzonte del tenente Giovanni Drogo ne Il deserto dei tartari di Valerio Zurlini e la stessa passione per il cinema del piccolo Salvatore oramai cresciuto di Nuovo Cinema Paradiso del Premio Oscar Giuseppe Tornatore.Alla sua carriera d’attore sin dagli anni 70 si è affiancata quella di produttore ed ora con la sua Galatée Films punta ancora una volta sui temi ambientali con un viaggio negli ultimi 12.000 anni della storia d’Europa, raccontata dal punto di vista degli animali. I quali, grazie a un sapiente montaggio, diventano i protagonisti quasi “umanizzati” di un racconto con pochissime parole che prende l’avvio dalla fine dell’ultima glaciazione, con la nascita delle immense foreste europee, in cui la vita scorre secondo i suoi ritmi naturali per secoli. Perrin e Cluzaud cuciono un film adatto alle famiglie, delicato e poetico, che si apre come il disneyano Bambi con la nascita di un cerbiatto, per prendere il passo dell’avventura negli spettacolari inseguimenti fra branchi di lupi e cavalli selvatici o della commedia grazie a buffi scoiattoli e gufi. Un mondo idilliaco, dove la morte e la ferocia sono presenti in modo sfumato, ricchissimo di varietà animali (un’ottantina di specie dalle renne, gli orsi, gli yak e le linci agli insetti più stravaganti) e di immagini spettacolari girate in 50 location fra cui le Alpi e i Pirenei francesi, Normandia, Scozia, Polonia, Olanda, Norvegia, Romania. L’uomo appare sullo sfondo, integrato per millenni nella natura, finché la sua azione diventa all’improvviso sempre più invasiva. Il progresso ha il suo prezzo: inizia la deforestazione per far posto alla campagna, gli animali spaesati si rifugiano in territori sempre più ridotti mentre l’uomo taglia alberi per farne navi, inquina coi pesticidi e le industrie, devasta territori con le guerre. «Ma la natura non abdica, nonostante tutto, resiste», conclude con speranza la voce narrante di Perrin.Signor Perrin, lei è stato un precursore nei suoi film delle tematiche ambientali al cinema. E a novembre nella sua Parigi si aprirà il summit mondiale sull’ambiente.«Noi abbiamo cominciato a lavorare a Les Saisons quattro anni fa, quando ancora la conferenza di Parigi era da venire. Si tratta di tematiche che ormai fanno parte della vita di tutti i cittadini. Per questo dopo aver trattato dei mari e dei cieli, spazi vasti sempre più inquinati e a rischio, volevamo dimostrare quale territorio straordinario ha l’Europa, e quale potrebbe ancora avere. I grandi animali d’un tempo, così affascinanti, ormai si trovano ai confini della Polonia, sulle Alpi, in Romania. Oppure si deve andare in America del Sud e Africa. Volevamo dimostrare che, malgrado tutto, lo stato selvaggio è qualcosa che è propizio allo spirito dell’uomo perché vuol dire libertà. Se si volesse fare ripartire un po’ di selvaggio nel cuore d’Europa basterebbe un po’ di buona volontà dei cittadini e dei nostri dirigenti».L’uomo nel suo film però non ci fa una gran bella figura...«Il progresso è fantastico, l’introduzione dell’agricoltura dopo il neolitico ha cambiato in meglio le nostre vite come pure l’industria e la tecnologia. Ma tutto ciò ha dei danni collaterali planetari. I bambini del Terzo mondo sono i nostri figli, presto non avranno più spazi, non avranno più da mangiare a causa dello spopolamento dei mari e delle coltivazioni a monocultura. Uomini e animali siamo sulla stessa barca e noi abbiamo delle responsabilità per le generazioni future».Papa Francesco ne ha fatto un tema centrale del suo pontificato, a partire dalla sua enciclica Laudato si’.«Il Papa è preoccupato per l’ambiente ed è una fortuna che una personalità autorevole come lui ne parli. Non ho ancora letto la sua enciclica, ma lo farò. Purtroppo dopo le conferenze di Tokyo e Joannesburgh, i politici davanti ai media hanno fatto tante promesse di cooperare, ma poi non si è fatto nulla. Intanto la situazione del pianeta degenera e rischiamo di andare presto a sbattere contro un muro. Speriamo col mio film di toccare i cuori con l’emozione e imprimere qualche concetto nella memoria».Lei si assume anche il rischio come produttore di investire in questo tipo di film. Come è cominciata?«Io cerco di fare film piacevoli, ma non inutili. Avevo iniziato negli anni 70 producendo i film impegnati di Costa Gavras contro le dittature come Z-L’orgia del potere. Amo che il cinema sia responsabile, e trovo che se ha qualcosa da dire è un’arma che può colpire molto forte attraverso le emozioni. Negli anni ho scoperto che ci sono altri problemi oltre la politica. La natura, ad esempio. La svolta per me è arrivata producendo Il popolo scimmia nel 1989 e Microcosmos - Il popolo dell’erba nel 1996».Quanto l’ha influenzata come regista la sua lunga frequentazione col cinema italiano?«Ora che ho raggiunto una certa età, guardandomi indietro posso dire di essere stato fortunato ad essere cresciuto sulle orme di grandi registi italiani da cui ho imparato moltissimo. Come Zurlini, che mi aveva adottato, Bolognini, Tornatore... Nel dopoguerra il cinema italiano è stato il più grande di tutti, soprattutto nel campo sociale col Neorealismo. Ma trovo formidabile anche la vostra commedia all’italiana, capace di parlare di cose gravi ridendo. Insomma, lavorare in Italia mi è piaciuto tanto».