Agorà

TESTIMONI. L’altare di Mao per i missionari

Gerolamo Fazzini venerdì 8 luglio 2011
Settant’anni fa, il 12 luglio 1941, a Qimen nella missione cinese di Weihui (oggi Anyang), veniva ucciso un missionario del Pime di 31 anni: padre Cesare Mencattini, originario di Arezzo. Un nome tra i tanti che hanno versato il loro sangue in terra di Cina.  Ma la raccolta di lettere da lui scritte, alla famiglia e ai confratelli, da poco pubblicate col titolo Una vita per la Cina (Emi, pagine 363, euro 16), ci restituisce il non comune spessore, umano e spirituale, dell’autore e documenta un’esistenza spesa totalmente al servizio del Vangelo.  Padre Cesare era giunto in Cina solo sei anni prima della sua morte. Annota padre Angelo Lazzarotto, sinologo del Pime, che ha pazientemente curato il denso volume «Si era immerso con entusiasmo nella cura di una vasta comunità di neofiti e nell’opera di testimonianza e di evangelizzazione presso i non cristiani, non curante dei crescenti pericoli». In effetti, il periodo in cui padre Mencattini esercita il suo ministero è uno dei più turbolenti della recente storia cinese. Nel 1941 la Grande Guerra aveva creato in Cina una drammatica situazione. La provincia centrale del Henan era stata invasa dalle armate giapponesi; l’esercito nazionalista cinese aveva fatto saltare le dighe del poderoso "Fiume giallo" nel disperato tentativo di arrestarne l’avanzata. Vaste zone della provincia, isolate per la furia delle acque, erano diventate così "terra di nessuno", in balìa di briganti, soldati sbandati e di gruppi che operavano come guerriglia contro i giapponesi. Impegnati da anni nella capitale Kaifeng e in due altre fiorenti missioni del Henan, i missionari del Pime (Mencattini compreso) scelsero di rimanere al loro posto nonostante i rischi, continuando a servire le loro comunità e cercando di proteggerle in ogni modo. Ma nel giro di pochi mesi pagarono un prezzo molto alto per questo coraggio: ben sei di loro furono uccisi. A quattro mesi di distanza dall’uccisione di padre Mencattini, il 19 novembre 1941 altri quattro missionari - tutti sotto i 40 anni - venivano barbaramente eliminati nella missione di Dingqun: Mario Zanardi, di Soncino (Cremona), Bruno Zanella, trevigiano di origine e Gerolamo Lazzaroni, di Colere (Bergamo); insieme con loro cadeva il nuovo vescovo designato per Kaifeng, monsignor Antonio Barosi, di 40 anni, originario di Solarolo (Cremona), che si era recato in quell’avamposto, all’estremità della missione, per incontrare i confratelli. Sempre a Kaifeng, pochi mesi dopo (siamo all’inizio del 1942) veniva rapito e poi sepolto vivo, insieme col giovane aiutante cinese, padre Carlo Osnaghi, milanese, di 43 anni. Una splendida pagina di fede e martirio che val la pena di riscoprire, anche grazie agli scritti di Mencattini.Quel che più colpisce, nelle numerose lettere di padre Cesare, è il senso di consapevole precarietà e lo stile di povertà accettata con il sorriso, ma soprattutto la disponibilità tutt’altro che teorica al martirio. «Secondo le mie previsioni andrò in Cina - annota, ancora giovane - perché ad essa verrà destinato il grosso della spedizione di quest’anno. Così sarebbero appagati i miei desideri e avrei il campo che in questi tempi ci dà la speranza di coronare la nostra vita con la palma dei Martiri». Alcune pagine colpiscono per lo slancio e la generosità del cuore che rivelano. Come questa, scritta al fratello sacerdote nel 1937: «Carissimo Pasquale, sono felice di fare il Prete zingaro, senza Chiese, senza Canonica, senza beneficio, ma ricco di anime». E continua: «T’assicuro che ho il cuore contento, contento d’aver lasciato i miei cari perché il mio affetto sia completamente rivolto verso Dio e verso tanti poveri che ora mi sono cari quanto i miei genitori, perché li ho rigenerati io col Santo Battesimo; contento di aver rinunziato alle bellezze della nostra Italia per queste sabbie gialle che per me sono diventate familiari quanto il mio paese e non le abbandonerò mai se non per andare in Paradiso; contento di aver rinunziato anche alla mia scienza appresa dopo tanti studi per farmi quasi ignorante, nell’esporre nella forma più semplice, nei paragoni più rozzi, in una lingua che ho appreso con tanta fatica, le bellezze della nostra S. Religione». E conclude, con espressioni che vanno dritte al cuore: «Dillo tu se questa non è vera felicità! ... Non ho neppure una chiesina, ma ho duemila anime, veri templi viventi, in cui Dio abita con la sua grazia e con le sue benedizioni».