Agorà

Il caso. Lettere d’amore dopo il lager

ALESSANDRO ZACCURI domenica 22 novembre 2015
I due ragazzi si scrivono da un po’, ma non si sono mai incontrati. Giusto intravisti in fotografia, come succedeva una volta. Un giorno  però lui, vincendo ostacoli e ritrosie, decide di andare a trovarla. Lei lo aspetta alla stazione accompagnata da un paio di altre persone, perché anche questa è l’usanza dell’epoca. La prima impressione, purtroppo, non è un granché: il corteggiatore si presenta goffo, malvestito, con lo sguardo spiritato dietro gli occhiali rotti. E i denti, i denti sono un disastro di metallo scintillante. Si improvvisa, allora, e un’amica fa finta di essere la destinataria del romantico epistolario. All’inizio il poveretto sta al gioco, poi si volta all’improvviso verso la ragazza giusta e le dice: «Ti ho sempre immaginata così. Sempre. Nei sogni. Ciao, Lili». Come andrà a finire lo avete già capito. Si innamorano, si sposano, non si lasciano più. Potrebbe essere la scena di un film sentimentale degli anni Quaranta o giù di lì, non fosse per un paio di particolari. Il primo è che, per una volta, siamo in presenza di una storia vera sul serio, tramandata sia per tradizione orale sia – e questo è l’elemento più importante – da una vasta documentazione scritta. Il secondo aspetto da tenere in considerazione è che Lili e Miklós, i due fidanzatini, non sono affatto i giovani spensierati che si potrebbe credere. Ebrei ungheresi entrambi, entrambi reduci dal campo di sterminio di Bergen-Belsen, hanno trovato riparo in Svezia ed è lì che i loro destini si incrociano per la prima volta. Grazie all’intraprendenza di lui, che si ostina a cercare moglie nonostante gli siano stati pronosticati pochi mesi di vita. Una storia vera, dicevamo. A raccontarla è ora il figlio della coppia, il regista cinematografico e televisivo Péter Gárdos, nato nel 1948 e venuto in possesso del carteggio fra i genitori solo nel 1998, dopo la morte del padre. Con l’aiuto della madre, Gárdos ha ricostruito ogni dettaglio della vicenda, ricavandone Febbre all’alba, un toccante memoir romanzesco che Bompiani porta in libreria in questi giorni nella traduzione di Andrea Rényi (pagine 224, euro 17,00). Ma in arrivo c’è anche il film dallo stesso titolo, diretto a sua volta da Gárdos, che giovedì 26 novembre ne presenterà alcuni spezzoni in anteprima al Circolo dei Lettori di Milano (presso la Fondazione Pini di corso Garibaldi 2, alle ore 18,30). Tutto comincia con una lettera, dunque. O, meglio, con 117 copie della stessa lettera che nel 1945 il venticinquenne Miklós spedisce ad altrettante donne ungheresi ricoverate presso ospedali e dispensari svedesi. Il testo è sempre uguale: prima della guerra abitavo a Debrecen, mio padre aveva una libreria in centro, forse si ricorda di me, forse non è lei la persona che avevo in mente... Gli invii rimangono in maggior parte senza risposta, ma qualcuna che replica c’è. Tra queste la diciottenne Lili Reich, che a Debrecen è nata, in effetti, ma poi ha vissuto a Budapest, si rammarica per l’equivoco e saluta caramente. Miklós non ha dubbi: Lili è la ragazza che cercava per innamorarsi, tutto il resto viene di conseguenza. Poco importa che gli sia stata diagnosticata una forma incurabile di tubercolosi, poco importa che, dopo le torture naziste, in bocca porti una dentiera realizzata in palladio, un metallo simile all’argento ma molto meno pregiato. E poco importa anche che Lili conservi le vecchie convinzioni borghesi, mentre lui, Miklós, è un socialista convinto, oltre che un aspirante poeta.  La vicenda sentimentale, sia pure rievocata con delicatezza, non esaurisce l’interesse di Febbre all’alba, come dimostra la nota finale nella quale Péter Gárdos ripercorre la contrastata carriera giornalistica del padre, i cui ideali egualitari furono messi a dura prova dal regime comunista ungherese. Nel 1956 l’uomo fu addirittura tentato di lasciare il Paese, ma scelse invece di rimanere, si specializzò in politica estera, trovò il modo di sopravvivere alla propria disillusione. Tutto questo ebbe un prezzo, annota il figlio. Miklós abbandonò i suoi progetti letterari, non scrisse poesie al di fuori di quelle dedicate all’ancora sconosciuta Lili (ma c’è anche un’ode “A un bambino svedese” che gli donò qualche giorno di notorietà) e, più che altro, non mise mai mano al vagheggiato romanzo in due parti, dodici capitoli per parte, la prima sulla deportazione degli ebrei, la seconda sulla loro liberazione  «Avrebbe voluto ricostruire il viaggio nei vagoni piombati, Il grande viaggio, l’orrore comune fino ai lager tedeschi, l’opera che ha scritto Jorge Semprún al suo posto», annota Péter Gárdos, che stranamente dimentica di citare Primo Levi, visto che Se questo è un uomo e La tregua corrispondono esattamente alle due sezioni narrative ipotizzate da Miklós. Cronaca di un amore straordinario e di una guarigione non meno sorprendente (la tubercolosi scompare e di misurare la “febbre all’alba” non c’è più bisogno), il libro sfiora anche le problematiche religiose del dopoguerra. Lili ha una mezza idea di convertirsi al cattolicesimo, Miklós la accontenterebbe, ma l’intervento di un rabbino li convince a non abbandonare l’ebraismo, almeno dal punto di vista formale. È una questione su cui Gárdos non si sofferma, lasciando intendere che la religione non è mai stata troppo rilevante in casa sua. L’unica fede del padre era nel comunismo. Il dio che è fallito, come lo chiamava un altro grande ungherese, l’espatriato Arthur Koestler.