Agorà

IL CASO. Arturo Labriola, l'antifascista che adorò il Duce

Roberto Festorazzi mercoledì 17 agosto 2011
Nel voluminoso “dossier antifascisti” detenuto da Mussolini, erano incluse anche le lettere di servile adulazione scritte al Duce da uno dei padri nobili del socialismo italiano, Arturo Labriola, tipico esponente della casta degli intellettuali (molti dei quali considerati ancora oggi ufficialmente oppositori del regime) che “tenevano famiglia”. Queste missive sono state scoperte da chi scrive agli Archivi nazionali britannici, e illustrano il codice comunicativo e comportamentale della legione di italiani “eccellenti” che ha bussato alla porta del dittatore per chiedere denari. Personaggio noto a livello internazionale, oltre che per essere stato tra i fondatori del Partito socialista italiano, anche in ragione della sua affiliazione massonica, Labriola era stato un importante uomo politico, prima dell’avvento del fascismo, ricoprendo tra gli altri i ruoli di sindaco di Napoli e di ministro del Lavoro nell’ultimo governo Giolitti del 1920-21. Dunque, avrebbe dovuto avvertire su di sé il gravame di una responsabilità maggiore: quella di saper mantenere la schiena dritta di fronte al despota. Invece no: già nel febbraio del 1927, Labriola, da pochi mesi decaduto dalla sua carica di parlamentare antifascista, compie atto di completa sottomissione scrivendo una lettera di elogi sperticati al Duce che aveva rimosso gli ostacoli alla sua assunzione presso un’azienda privata. Non è tutto. In una lettera di molto successiva (siamo nel gennaio del 1941), il leader socialista ringrazia il Capo che gli ha fatto giungere una regalia da venticinquemila lire. Una bella cifra, per allora. Sempre al Public Record Office di Londra, e ancora una volta sul conto di Labriola, ho trovato altri imbarazzanti documenti di questo tenore, nell’oceano di carte della Italian Collection (vale a dire il corpus dei dossier della segreteria particolare del Duce che gli Alleati hanno riprodotto al termine della campagna bellica del 1943-45). In occasione della guerra d’Etiopia del 1935, “don Arturo” si dichiarò pubblicamente favorevole alla conquista italiana del suolo africano. Subito dopo, passò, come si suol dire, all’incasso. Come già era accaduto in passato, nell’aprile del ’36 fece sapere di essere pressato da necessità economiche, e avanzò a Mussolini la richiesta di «poter guadagnare sette-ottocento lire al mese». Siamo ai tempi della famosa canzone che diceva: «Se potessi avere mille lire al mese».Un’interessante lettera riservata al prefetto di Napoli, firmata dal segretario particolare del Duce, Osvaldo Sebastiani, il 4 agosto successivo riassume lo stato dell’arte. Eccone il testo inedito: «Eccellenza, il professor Arturo Labriola ha fatto pervenire al Duce la preghiera di poter essere utilizzato presso l’Ufficio studi del Banco di Napoli. Sua Eccellenza si è compiaciuto di esprimersi benevolmente in senso favorevole all’assecondamento dell’aspirazione del Labriola a condizione che l’incarico venga regolato in forma che escluda la notorietà, con l’assegnazione, cioè, al Labriola di lavoro da svolgere in casa, senza frequenza negli uffici della Banca». Insomma, una decorosa e ben remunerata soluzione, in grado salvare capra e cavoli, tutelando con la dovuta discrezione l’immagine dell’istituto che eroga assistenza mascherata a un relitto del vecchio sistema politico. Tutti contenti, dunque? Nemmeno per sogno. A poche settimane di distanza, ecco la sorpresa. Il direttore generale del Banco scrive al prefetto di Napoli, Giovanni Battista Marziali, informandolo che l’istituto di credito si è già adoperato a favore del Labriola, procurandogli un incarico di consulenza legale presso la Società Manifatture Cotoniere Meridionali di Napoli, con un compenso mensile di millecinquecento lire. Ma al capo storico del socialismo italiano questo non basta. E allora, tirato per la giacca, il banchiere è costretto a promettere ulteriori interventi a favore del protetto del Duce: «Quantunque, in base agli ordinamenti del Banco, sia difficile affidare incarichi di lavoro continuativo a chi non fa parte del personale ordinario dell’Istituto, pure assicuro Vostra Eccellenza che farò quanto mi è possibile per utilizzare il professor Labriola in qualche compito presso l’Ufficio studi». Evidentemente, le necessità finanziarie non dovettero cessare, a giudicare dal tenore di una informativa di Polizia, datata 21 ottobre 1938, che giunse sulla scrivania di Mussolini. Nella nota, anonima e altrettanto inedita, si riferisce addirittura di propositi suicidi manifestati da Labriola, che non ha «la forza di condurre una vita così priva di significato e soprattutto in così gravi condizioni economiche». L’ex esponente antifascista, infatti, «oltre a vivere a Napoli, con le lire mille e cinquecento che egli riceve dalle Cotoniere per le consulenze e le lire cinquecento della “Tribuna d’Italia” non ha altri proventi e deve pensare a sé stesso e alla famiglia che egli ha Bruxelles. Vi sono giorni del mese che egli manca del necessario». L’informativa così continua: «Recentemente egli ha finito di scrivere un nuovo interessante volume che nessun editore vuole pubblicare senza l’autorizzazione del ministero della Cultura popolare e tutti si rifiutano per timore di rappresaglie del partito di affidargli lavoro e perfino di riceverlo. Il professor Labriola invogliato a rivolgersi al Duce ha detto che gli sembra veramente sconveniente di scomodare il Capo per così piccola cosa, ed ha timore di dare fastidio. A persona amica che gli consigliava di rivolgersi al Capo della Polizia egli ha detto di aver già troppo abusato della benevolenza del senatore Bocchini e che preferisce piuttosto soffrire in santa pace che richiamare l’attenzione su di lui». La difficoltà conclamata di Labriola a essere edito, e persino a essere ricevuto, gli derivava sicuramente dalla sua ambiguità di fondo; infatti, se a livello internazionale egli seguitava a pubblicare interventi sulla stampa antifascista, in Italia era collaboratore del mensile di Nicola Bombacci, “La Verità”, testata del socialismo nazionale e delle frange di sinistra del regime. Nel dopoguerra, l’ex padre nobile del socialismo nazionale ebbe un ulteriore cursus honorum, rispettato da tutti come un monumento dell’antifascismo. Eletto dapprima all’Assemblea costituente e successivamente al Senato della Repubblica, finì in suoi giorni il 23 giugno 1959. Ancora nel 1956 il Pci lo aveva candidato come capolista e fatto eleggere al consiglio comunale di Napoli in opposizione al sindaco monarchico Achille Lauro.