Agorà

DIALOGHI DI PASQUA. La verità messa in croce

Lorenzo Fazzini venerdì 6 aprile 2012

SERGIO GIVONE: DAVANTI AL  DOLORE INNOCENTE NON POSSIAMO LAVARCI LE MANILa morte dell’uomo-Dio Gesù Cristo è il crinale su cui si gioca il credere. E anche il non credere: «La prova per affermare la fede è la stessa di quella di rifiutare di credere». Si rifà a Ivan Karamazov e al suo provocatorio “Restituisco il biglietto” Sergio Givone, ordinario di filosofia all’università di Firenze, nel riflettere sulla portata umana, filosofica e religiosa dell’evento di cui la liturgia cristiana fa memoria oggi.Nel cuore della Passione di Cristo, durante l’interrogatorio di Pilato, compare una domanda prettamente filosofica: «Che cos’è la verità?» Lei, da filosofo, come giudica il silenzio di Gesù di fronte a questo interrogativo?«È vero, Cristo non risponde a Pilato, ma in realtà lo ha già fatto laddove afferma: “Io sono la verità”. Cioè, la verità, secondo Cristo, non è una cosa e neppure un paradigma che ci dice come stanno le cose. La verità è una persona e l’incontro con questa persona. La verità esiste solo se io sono disposto ad ascoltarla e incontrarla. Di qui si capisce l’affermazione di Dostoevskij: “Tra dovessi scegliere la verità e Cristo, io sceglierei Cristo”. Per questo motivo, di fronte a una persona che non è disposta a incontrare la verità e che non riesce a capire Gesù, egli può solo tacere. Si tratta della logica presa d’atto dell’impossibilità di essere accolto per quello che egli è: una verità personale. Ricordiamoci che Cristo non era accusato di chissà quali crimini, sui quali il governatore avrebbe potuto conoscere la realtà dei fatti: era incriminato appunto perché si proclamava la verità!»Accanto al Venerdì santo della liturgia viviamo, nella cronaca, diversi «venerdì santi» umani, anche di recente: la strage di Tolosa, i bambini dell’asilo belga morti in incidente in Svizzera, i terremoti… Quale differenza tra quell’evento e questi fatti?«Già, una bella domanda. Anche i “piccoli” venerdì santi ci mettono davanti, ad esempio nella morte di ciascuno di noi, l’icona del “grande” venerdì santo. Domandiamoci: in questo giorno chi muore? Un uomo crocifisso che, nel racconto evangelico, è anche Dio: non muore per finta, ma realmente! Se Cristo non è solo uomo, ma anche Dio, la sua morte è molto di più: è il senso stesso delle nostre morti. Nelle nostre sofferenze noi veniamo in contatto con Dio stesso».Ma il dolore e la morte, soprattutto degli innocenti, vengono spesso considerati prove dell’inesistenza di Dio…«Dio non è venuto a dirci: “Tu muori, ma poi rivivrai”. Egli è venuto a dare risposta alle nostre domande prendendo su di sé il dolore, la sofferenza e ogni tragedia. La tentazione si affaccia in ogni istante, però: se i bambini muoiono, Dio non può esistere. Ma se egli ha preso su di sé ogni dolore, anche la sofferenza diventa via alla fede. È il dilemma di Ivan Karamazov: “Restituiscono il biglietto” della vita di fronte al dolore innocente?». «Non sanno quello che fanno». Quali sono, oggi, i carnefici che non conoscono il male che compiono verso gli innocenti?«Tutti siamo colpevoli, io compreso. Ognuno di noi lo è, soprattutto per quel che non fa. Non esiste nessuna giustificazione facile. Nel nostro “non so” c’è sempre molta colpa. Nel nostro “non sapere” ci sono le grandi tragedie dei totalitarismi, quando ci scusiamo dicendo: “Siamo stati solo dei passacarte, non eravamo aguzzini”. In quei frangenti, nessuno sapeva, in realtà tutti sapevano. Quando Gesù chiede al Padre di perdonare i suoi aguzzini, sa che essi sono colpevoli».Ma di fronte alle tragedie naturali, possiamo dirci? Sono più scandalosi i terremoti o le guerre degli uomini?«Lo scandalo c’è sempre! L’uomo accusa Dio per un terremoto ma poi assolve se stesso: ogni guerra chiama in causa ciascuno di noi».LUISA MURARO: «SONO LE DONNE DEL VANGELO A INSEGNARCI COME SI STA ACCANTO A QUELLI CHE SOFFRONO»Luisa Muraro, docente emerita di filosofia all’università di Verona, esponente di spicco del pensiero della differenza sessuale, rintraccia una fecondità di pensiero e di azione, anche laica, nei fatti del Venerdì santo: «Di fronte al dolore innocente, il messaggio cristiano è straordinario: ci dice che c’è sempre qualcosa da fare anche nell’impotenza: la vicinanza alla vittima».Qual è il tratto del Venerdì santo che lei considera più eloquente?«La paura di essere sconfitti, di finire ai margini, di fallire. Penso ai Dialoghi delle carmelitane di Bernanos. In apertura si legge: “la Paura è figlia di Dio, riscattata la notte del Venerdì santo”. D’altra parte, furono proprio alcune donne a vincere questa paura per seguire Gesù fino alla fine, Pietro e gli altri erano scappati. Li capisco, io come la priora di Bernanos ho paura ma quando penso a quelle donne, la mente si calma nell’ammirazione. Ci insegnano la grandezza di saper stare accanto a coloro che sono colpiti dalla sofferenza, anche quando siamo impotenti. Il comportamento di quelle discepole di Gesù crea uno straordinario contrasto con la logica di questo mondo, dove tutti si affollano intorno al potente, al ricco, all’uomo di successo. È la lezione cristiana più difficile e grande, sapere in pratica che il Signore non è nel ricco o nel potente, ma nei piccoli e nei poveri. Ma la vicenda della Passione ci pone la domanda: cosa possiamo fare quando non c’è più niente da fare? E la risposta del Vangelo è: “esserci”».La colpisce dunque questa presenza femminile sotto la croce…«È una presenza che ha un ulteriore significato. Lo troviamo in Santa Teresa d’Avila, in quel un passo del suo Cammino di perfezione, inizio del quarto capitolo, dove protesta energicamente con il Signore perché gli uomini non danno libertà alle donne di parlare e agire pubblicamente. E porta come argomento che le donne, nella vita terrena di Gesù, gli hanno dimostrato “altrettanto amore e più fede degli uomini”. Teresa chiede che se ne tenga conto». Dio muore sulla terra. A lei che è filosofa che cosa dice il Venerdì santo?«Il punto abissale, non solo teologico, è il grido di Cristo rivolto al Padre quando si sente abbandonato, sentimento che egli aveva già provato nell’orto degli ulivi. In quel momento tutto diventa nero: il Venerdì santo è un giorno quasi senza liturgia, senza musica né colori. Qui ci si congiunge con l’insegnamento della mistica più profonda: quando tocchiamo Dio, questo toccare è un “nero” insostenibile e impossibile. Ma da qui si passa a un’altra “impossibilità”: non si può parlare di Dio che muore senza accettare quella cosa folle che è la risurrezione. L’elemento plausibile in questa vicenda non è la logica umana, ma uno scrigno di assoluto in cui tutto precipita per convertirsi in una gloria impensabile: anima e corpo che risorgono dalla morte. Precipitando nell’abisso della morte di Dio, tutto sembra risucchiato nel niente, ma dall’abisso si sprigiona una luce ed ecco che ogni cosa diventa possibile».  Gesù muore davanti a sua madre. L’immaginario contemporaneo, anche nella fotografia, registra l’eco di questo tema tragico. Perché colpisce così tanto?«Si tratta di un archetipo che si è impresso in maniera indelebile grazie all’arte sacra ispirata dal racconto evangelico. Sullo sfondo, quello che traspare è l’associazione tra il corpo femminile fecondo e la vita, ma in una lotta estrema e perdente. La madre che abbraccia il figlio morto lo contende alla morte. Nel film E ora dove andiamo? di Nadine Labaki, libanese, la madre abbraccia il figlio ucciso, gli parla e lo scuote ripetutamente perché le risponda. Il film, ambientato in un paesaggio che ricorda la Palestina di Gesù, è opera di una donna che non si rassegna che quell’immane dolore sia per niente e debba sempre ripetersi. Questo mi fa pensare al meraviglioso voltafaccia della resurrezione».