Agorà

Fiction. ’Ndrangheta. la tv denuncia l’assedio del Nord

Umberto Folena mercoledì 29 gennaio 2014
Un grande racconto morale, ben scritto, ben recitato e ben diretto. E una Rai che dimostra di saper dare il meglio di sé, meritandosi stima e canone, quando si affida alle idee e a professionisti capaci, senza dilapidare fortune. L’assalto, in onda lunedì prossimo in prima serata su Rai1, è un "tv movie" che possiamo serenamente tradurre tout court con "cinema". Lo vedremo sul piccolo schermo, ma non sfigurerebbe sul grande.La storia attinge alla cronaca più sporca e dolorosa. C’è un hinterland milanese fatto di cantieri con l’acqua alla gola e imprenditori edili strangolati da crediti impossibili da riscuotere. C’è il potere assoluto dei soldi, il "liquido" scomparso. I costruttori non riescono a pagare lo stipendio ai dipendenti, i creditori (amministrazioni locali, aziende pubbliche...) nicchiano, le banche non fanno credito... All’inizio del film un costruttore rovinato e umiliato, con l’occhio lucido e le labbra tremanti, si aggira in una Brianza livida e fredda, ostile, e si ammazza. Il geometra Giancarlo Ferraris (Diego Abatantuono), dopo trent’anni di duro e onesto lavoro, si trova anche lui senza denaro. E il denaro va da lui, con apparente generosità, tramite il giovane Giancarlo De Luca (Paolo Mazzarelli), che "convince" una Asl riottosa a pagare il suo debito e fa ottenere a Ferraris, con irrisoria facilità, un prestito di 350 mila euro. De Luca è un diavolo tentatore travestito da angelo, bello ed elegante, accento lombardo da calabrese di seconda generazione. Un seduttore, che avvolge Ferraris e sua figlia Federica (Camilla Semino Favro) in un patto faustiano dove il sedotto danna se stesso mentre cerca di salvarsi. Ferraris scivola nelle spire della ’ndrangheta trapiantata al Nord, che i soldi li ha, li mette a disposizione, ma in cambio esige l’anima. Non anticipiamo altro, se non che nella scena finale il film si spalanca alla luce, sulla scalinata del Palazzo di Giustizia di Milano, sotto l’effigie di Falcone e Borsellino. Un lieto fine per nulla banale né scontato, che apre alla speranza e invita al coraggio.Ricky Tognazzi si merita la lode facendo ciò che sa far meglio: un cinema civile d’alto profilo, asciutto e intenso, che denuncia il male e indica il rimedio. Lo aiutano l’ottima sceneggiatura di Monica Zapelli, Claudio Fava e Francesco Ranieri Martinotti, e la prova convincente di attori veri, quasi tutti dalle solide esperienze teatrali, che si sudano la parte, come il capomastro calabrese, onesto fin nelle midolla, interpretato da Ninni Bruschetta e il capo della ’ndrina, antico e modernissimo, un Luigi Maria Burruano avvolgente e letale come una serpe. Non sono parole di circostanze queste di Tognazzi: «Mai come in questo film la potenza degli attori mi ha aiutato a imprimere pathos alla storia». Abatantuono, in particolare, mai s’era misurato in un ruolo così drammatico, senza alcuna concessione al comico e al lieve.L’assalto è anche il confronto fra tre generi di famiglia. La famiglia malavitosa, fondata sull’omertà, finalizzata al denaro e al potere; la famiglia Ferraris, padre e figlia, che si salva proprio quando si riscopre famiglia vera, fondata sull’amore; e l’azienda che funziona come una famiglia, dai solidi legami di reciproca fiducia. Abatantuono ieri, davanti ai giornalisti, commentava: «Lieto fine? Sì. Ma dopo, dopo il processo, dopo la pena, che succede? Torna tutto come prima? Mi piacerebbe saperlo...». A noi basta che a vincere, stavolta, siano i legami forti, il lavoro, l’onestà.