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La mostra ad Aosta. Svizzera, l'arte divisa degli espressionisti

Maurizio Cecchetti venerdì 15 luglio 2022

Herman A. Scherer “Ragazza e donna” (1925, particolare)

Sull’espressionismo, come categoria estetica, e in particolare come tendenza artistica, la letteratura critica è copiosa, ma spesso “di maniera”. Basterebbe porre la domanda su quanto incida la dimensione simbolica e mistica (il potere dell’immaginazione) nel determinare il linguaggio espressionista, per aprire una discussione che, credo, porterebbe a molte revisioni e ridefinizioni delle stesse qualità artistiche che solitamente ricadono dentro questa categoria estetica (per non dire, poi, anche sulla base delle riflessioni di Worringer, uno dei più sottili teorici di quel linguaggio con una proiezione astratta più che figurativa, dell’uso che è stato fatto in sede critica del termine espressionista per Michelangelo; non a caso questa “licenza” terminologica poggia anche sulla esaltazione artistica che proprio Worringer nel 1909 fece della Pietà Rondanini, rendendola un oggetto-feticcio del non finito).

Come sempre le divisioni nette fra epoche o momenti storici è un modo riduttivo di leggere i fenomeni, anche quelli artistici, dove tutto invece si tiene in modo assai più osmotico di quanto non vogliano gli schemi critici. Ad Aosta è stata da poco inaugurata una rassegna che affronta la questione sul versante elvetico: icastico come un brand, Espressionismo svizzero è un titolo ovvio ma che fa pensare esista un’autonoma linea espressionista elvetica (fino al 23 ottobre). Così, del resto, si pongono o, se vogliamo, s’impongono le realtà nuove, attribuendo loro un nome mentre ancora si stanno formando. Accadde all’inizio della loro storia per tendenze artistiche come quella impressionista, espressionista, cubista, ed è soltanto il caso di ricordare che quando vennero coniati, questi termini uscirono dalla penna spregiativa di una critica giornalistica benpensante e accademizzante. Nemesi ha voluto che oggi quei nomi siano diventati brand che attirano le folle come il miele le mosche.

Herman Huber, “Paesaggio del Vallese” (1912) - .

La mostra di Aosta presenta 68 opere fra dipinti, incisioni e disegni, e un’unica scultura in legno, neoprimitiva, di Herman August Scherer che raffigura una ragazza e una donna, nude, che si stringono assieme l’una di schiena all’altra. La mostra, che attinge largamente, ma non solo, alle collezioni del Kunst Museum di Whinterthur (esattamente un anno fa lo stesso museo aveva allestito la medesima retrospettiva esponendo però circa 120 opere di 40 artisti) ci permette di vedere come la Svizzera sia un Paese dove l’espressionismo nasce da un’anima divisa, o, se si preferisce, da un dualismo che ha le sue radici storiche – come scrive Cäsar Menz nel catalogo (Silvana) – nella «frattura tra Svizzera francese e tedesca».

Il clima drammatico e la volontà ribelle di molti si erano poi acuiti con la Grande Guerra, tragedia che ebbe le sue conseguenze anche in termini di linguaggio artistico. E due decenni dopo, sul versante tedesco, quel-l’arte fu definita “degenerata” dal nazismo. A fare da ponte fra questi due argini della nuova pittura sarà il tedesco Ernst Ludwig Kirchner che nel 1917 si stabilirà a Davos per curare i postumi di una grave depressione. Kirchner fu subito considerato un maestro da vari artisti svizzeri, per esempio, i tre che fondarono il gruppo Rot-Blau: Herman Scherer, Albert Müller e Paul Camenisch. Eppure, i predecessori della pittura elvetica espressionista sono altri due, e la mostra li chiama subito all’appello: Cuno Amiet e Giovanni Giacometti, il padre di Alberto. Cuno è certamente il più dotato tra i due, basterebbe La ragazza tra i fiori del 1900, a dare prova del suo talento pittorico, ma Giacometti padre, anche senza inseguire l’avanguardia, ha un approccio assolutamente moderno alla pittura: nel 1916 ci dà un ritratto del figlio Alberto dove riflette il post-impressionismo, Van Gogh, l’ultimo Cezanne, mentre nel paesaggio invernale che inquadra St. Moritz dall’alto sembra quasi dialogare a distanza con Kokoschka e, nondimeno, dieci anni dopo la vista del sole invernale sul Maloja inclina verso una simbolica della luce che va oltre il secessionismo.

Daria Jorioz nel catalogo delinea rapidamente alcuni punti di riferimento storico per questa pittura che, in sostanza, si misura con ciò che accade nell’espressioni- smo francese e tedesco. I rimandi iniziali vanno, naturalmente, a Van Gogh, Munch, Ensor, Gauguin, Cezanne; ma lo sguardo degli espressionisti prende forma dall’Einfühlung, l’empatia che va al cuore dell’oggetto trasformandone dall’interno la percezione (come intuizione creativa); la resa è antinaturalistica, in particolare per il colore che testimonia la condizione psichica dell’artefice, e procede per stilizzazione e deformazione, in una completa libertà da canoni e regole accademiche. Il vento dell’avanguardia in Svizzera porta alla formazione del gruppo Der Moderne Bund che allestirà una collettiva a Lucerna nel 1911, cui partecipano, tra gli altri, Amiet, Hodler, Huber e Helbig, affiancati da opere di Gauguin e Picasso; è un vento “rivoluzionario” che anticipa la tempesta d’acciaio bellica: la pittura ne avverte il dramma imminente auscultando il cuore umano e le tensioni di una società già al crepuscolo.

Ignaz Epper, “Esecuzione” (1916) - .

Esiste anche un versante “politico” dell’espressionismo elvetico, pur senza forti o radicali prese di posizione, di cui sono interpreti Eduard Gubler, che disegna momenti della protesta sociale e dello scontro fra manifestanti e polizia negli anni tragici della Grande Guerra: la sua pittura scura ha già nelle fibre germi di neorealismo che emergeranno in seguito; e Ignaz Epper, che dipinge cupi scenari urbani e, tanto in pittura quanto nella grafica, fa di san Sebastiano una icona del martirio sociale. Il versante sociale è rappresentato anche da Otto Bauberger che, sempre a cavallo del conflitto europeo, raffigura un corteo di rivoluzionari con spade e bastoni che avanzano gridando e facendo fronte compatto; Otto Morach, infine, dipinge scheggiate prospettive con ciminiere i cui fumi si elevano sopra il cielo cittadino. Pur simpatizzando col comunismo, oltre alla scultura già ricordata, la mostra ci propone di Scherer un tardo Paesaggio del Mendrisotto, dipinto l’anno prima della morte nel 1927, dove i colori costruiscono l’agrimensura spirituale di una nuova terra.

Di straniata forza cromatica sono poi le tele di Philip Bauknecht il quale altera ogni residua relazione naturalistica fra colore e realtà, e in Albero gigante ci dà un’immagine che mira quasi alla sublimazione della realtà naturale in colori acidi che comunicano un disagio psichico (non disdegnando forme quasi naïf ma che poco hanno a che fare col mito popolare). I più europei fra gli espressionisti svizzeri sono Hermann Huber, di cui è esposto un bellissimo Interno di foresta del 1912 e, dello stesso anno, l’iconico Paesaggio del Vallese; e Hans Berger: pittore con uno sguardo aperto, che viaggiò molto nell’Europa meridionale, anche in Italia, offrendo nella tela Campi e colline del 1909 splendida sintesi di luci e colori.

Se la mostra cerca di riscoprire l’opera di Alice Bailly, che in realtà sembra dipendere troppo dalla lezione dei grandi pittori francesi di fine Ottocento, la “differenza” s’impone davanti ai due emigrati russi che si stabilirono ad Ascona e formarono per molto tempo un sodalizio sentimentale e artistico, parlo di Marianne von Werefkin e Alexej von Jawlensky: è netto il divario che si crea, rispetto agli altri pittori, nella ricerca della sostanza spirituale del colore (ad Ascona, dove presero casa, e dove Marianne fondò con altri sei artisti “emigrati” il gruppo dell’Orsa Maggiore, questa lotta interiore, come scrive Cäsar Menz, trovò sul Lago Maggiore il suo paesaggio idilliaco; da quelle parti, infatti, si radicò anche l’esperienza del Monte Verità). Marianne, il vero genio tra i due, ha la natura del visionario che, secondo Focillon, non riguarda poteri medianici, ma la capacità di “visionare” l’oggetto, cioè di vederlo nelle sue qualità costitutive. Ed è forse questa la lezione maggiore che ci lascia l’espressionismo europeo. Una domanda resta invece a margine della mostra: ci si chiede, infatti, se l’assenza di Ferdinand Hodler sia da imputarsi a questioni generazionali, ovvero se si sia giudicata la sua pittura, molto importante anche fuori dalla Svizzera, troppo poco espressionista o non, piuttosto, troppo incline a forme di simbolicità e allegorismo che, peraltro, andrebbero riconsiderati, come si diceva all’inizio, tra i fattori costitutivi dell’espressionismo.