Agorà

IDEE. La storia scritta dai «buffoni»

Roberto Beretta mercoledì 5 agosto 2009
«Buffone!» . Fosse finita così... E invece dietro una definizione, un epiteto, talvolta un insulto – come questo è spesso interpretato –, che storia e che storie si nascondono! L’una e le altre ha rintracciato, con ammirevole passione, Tito Saffioti, che ne Gli occhi della follia ( Book Time, pp. 220, euro 30) restituisce al lettore un percorso di « giullari e buffoni di corte nella storia e nell’arte » davvero ricco di imprevisti, sorprese e curiosità come si conviene al soggetto; il quale è tutt’altro che banale, considerata l’importanza e addirittura il prestigio che nani, istrioni e « jolly » ebbero per lunghi secoli – soprattutto dal Medioevo in poi –, essendo indispensabili alla vita di corte e più d’una volta in grado d’influire sulle scelte dei loro sovrani. Non è un’esagerazione – del resto basterebbe rammentare il ruolo « politico » della satira e della comicità televisiva ai giorni nostri. Avere un pazzerello o un gobbo ai piedi del trono era quasi un obbligo per un signore, un segno di potere e distinzione; ci sono stati re e regine che « collezionavano » nani ( pare che la Polonia ne fosse una notevole « esportatrice » ), sovrani che li regalavano ai pari grado ed altri che se li « rubavano » a suon di ingaggi. Tanto che non è raro trovare buffoni il cui reddito era più che ragguardevole, addirittura alla pari con i principali dignitari di corte. Raffaello Menicucci, buffone di Papa Urbano VIII ( eh sì, nel Rinascimento nemmeno la Roma pontificia si sottraeva alle consuetudini signorili dell’epoca...) si fa ritrarre con ben visibile in mano il contratto di proprietà di un castello. Anche per questo è piuttosto comune rinvenire testimonianze iconografiche dei giullari: i loro padroni amavano inserirli nei quadri di famiglia ed essi sovente vestivano vere e proprie « divise » dai colori corrispondenti allo stemma nobiliare sotto il quale servivano. Di alcuni si sono poi tramandate in letteratura le gesta e il nome: è successo per Henry Paterson, il buffone di Tommaso Moro; per il mantovano Mattello, idolatrato da Este e Gonzaga; Scocola, celebrato dal Muratori; il nano Morgante ritratto dal Giambologna; il bellissimo e scaltro Dolcibene, che ispirò una novella del Sacchetti; il francese Triboulet ( da cui un dramma di Victor Hugo e il Rigoletto di Verdi); infine Gonnella, mitizzato come il più bravo di tutti... D’altra parte, non tutti i guitti ovviamente partecipavano a tale privilegiato status di divi o star; c’erano pure i ciarlatani di piazza, i trovatori da fiera, i giocolieri ambulanti. Di per sé, inoltre – come scrive Saffioti –, « per tutto il Medioevo il giullare ha sofferto di una clamorosa ambiguità sociale » . Fin dalle caratteristiche fisiche (la minima statura e le più varie deformità) o psichiche, il buffone era un irregolare nell’ordine stabilito. La sua vita, simile a quella degli attori, lo portava a deragliamenti etici spesso sanzionati dalla Chiesa – almeno in teoria. E tuttavia la sua funzione risultava socialmente utile e moralmente liberatoria: solo il giullare poteva dire quel che pensava, o che riceveva dalla pubblica opinione, senza timore di ritorsioni, temperando così almeno in parte gli eccessi di un potere non certamente democratico. Al buffone era concesso dileggiare, percuotere, in un certo senso « punire » il padrone per il suo primato di ricchezza e potenza; e la stessa follia – reale o presunta che fosse – funzionava da salvacondotto. D’altra parte i jolly erano soggetti al medesimo trattamento, talvolta in forme umilianti e crudeli, con « scherzi » e dileggi che talvolta li portavano addirittura alla morte: «Si può dire – scrive ancora Saffioti – che essi rappresentassero una sorta di ricettacolo per dare libero corso alla cattiveria dei signori e una valvola di sfogo per le loro frustrazioni». Un «capro espiatorio permanente» , ma non solo: «La figura di un ' matto' in vesti ufficiali serviva a tranquillizzare sulla propria superiorità e sanità di mente e anche ad affermare agli occhi dei sudditi la regalità come perfezione attraverso il confronto con la deformità» . L’emarginato recupera dunque la sua funzione civile: non è più un « escluso » , rappresenta bensì un paradosso che si estende poi in altre istruttive direzioni, ad esempio quel rovesciamento dei ruoli con cui l’uomo ha spesso cercato di darsi ragione dei misteri della vita – o almeno di esorcizzarli. Il buffone diventa infine « necessario » ; se non altro perché, nel mondo dei «sani» , soltanto i matti possono osare di dire il vero.