Agorà

La mostra. La sete di bellezza di Arrivabene

Giovanni Gazzaneo domenica 6 settembre 2020

Olos caustos", 2019-20, olio su tavola

Agostino Arrivabene è un visionario. E come ogni visionario degno di questo nome ci svela la realtà. Non la sua superficie, imbellettata o rugosa poco importa, ma il suo essere tenebroso e luminoso insieme, dove morte e vita si danno battaglia in quel sanguinante e glorioso campo che è il cuore di ogni uomo. “Guardare dentro per vedere lontano”, scriveva Giorgio Soavi dell’artista lombardo. «Sin dalla mia infanzia – ci dice Arrivabene, di cui domani si inaugura presso la Galleria d’Arte Sacra dei Contemporanei di Villa Clerici, a Milano, la mostra “Resurrectio”, a cura di Luigi Codemo – ho dipinto, e ho superato e oltrepassato l’ovvietà del segno e dello scarabocchio o della traduzione della realtà attraverso i linguaggi primordiali che hanno i fanciulli: prime traduzioni per la conoscenza della vita e del mondo. Il disegno fu l’occasione per rispondere alla paura sorta dalla solitudine, dopo la morte di mia madre quando avevo quattro anni.

La pittura e il disegno erano le armi necessarie per affrontare le mie ansie e la realtà drammaticamente mutata traducendole in segni, sogni, e poi epiche e allegorie, canalizzando i nodi esistenziali verso una fluidità naturale, e forse simbolica, prima risposta al mio dolore per poi divenire arte e passione per l’arte». Quel bimbo solitario e impaurito è ora un uomo libero, che non ha paura della navigazione in solitaria. La sua pittura abbraccia ormai tre decadi di mostre e numerosi cicli. I critici si sono avventurati a ricercare i maestri e i riferimenti vicini e lontani, da Dürer a Bellini a Bosch fino al contemporaneo Odd Nerdrum.

La verità è più semplice: la storia dell’arte ogni grande l’abbraccia tutta, la metabolizza e la fa propria per generare nuove forme e colori, nuove idee e orizzonti, insomma nuova bellezza. «Fin da ragazzo ho sentito il bisogno delle guide necessarie, dei fondamenti per poter dare più carne a quei segni acerbi. Leonardo da Vinci fu il mio primo maestro, il faro che illuminò i miei passi e il mio naturale talento. Poi la cultura rinascimentale mi fu da richiamo verso la pittura primitiva fiamminga, fino a trovare successivi maestri che dovevano negli anni educarmi a segni e linguaggi sempre più diversi. Il mio è stato un peregrinare continuo nei linguaggi della storia e sono molti gli artisti del passato in cui ho riposto la mia fede: ognuno di loro è corso in mio aiuto in diversi decenni della mia vita. Ora, dopo una folgorazione avvenuta due anni fa davanti a un brulicare di corpi di un Giudizio universale, volgo i passi verso quella forza di Michelangelo Buonarroti che mi dona un’estasi dirompente nel sublime dell’arte, vertiginosa, piena di grazia e furore».

L’artista lombardo è pittore raffinato. Disegna e dipinge come pochi sanno (o hanno saputo) fare. Non si è mai rassegnato alla dittatura di un’epoca che vo- leva morte pittura e scultura, in una rincorsa al “nuovo per il nuovo”. Anni fa il cardinale Gianfranco Ravasi riportava in una intervista la confidenza di un grande maestro americano: «Gli artisti contemporanei escludono due cose: la bellezza e il messaggio». In questa “confessione” si esplicitano le ragioni della crisi del rapporto tra arte e sacro a partire dal Novecento: l’esclusione della bellezza (che ha molti volti, non solo quello “classico”), e l’esclusione del messaggio (che nulla ha a che fare con il concetto). «Per me lavorare attraverso questa lingua fatta di segni, gesti, colore, e materia è un processo complesso, forse è distillazione.

Molti lo avvicinano a un processo alchemico, l’atto della trasmutazione che porta alla grazia. È l’oro dei filosofi, meglio, la sapienza che sorge dalle miscelazioni della materia impura: era il piombo per gli alchimisti, la putredine che identifico con il dolore, con la ferita e lo squarcio che si forma nel corpo o nell’anima, quel vuoto che non si riesce mai a colmare. Ho fatto mie le parole di Eschilo dall’Agamennone, che ora sorreggono il mio procedere nei giorni: pathei mathos, attraverso il dolore si giunge alla verità. Ma a volte il frutto del mio lavoro può essere anche la risultante di un percorso che agisce senza originarsi da un progetto. Ho un grande senso del destino che muove i miei passi e così li lascio muovere. La pittura, nel suo automatismo, può diventare teofania di un mistero che agisce attraverso il nostro corpo per mezzo del gesto puro, qualcosa che semplicemente accade al di là della consapevolezza: una leva che scardina l’ostacolo davanti a un varco necessario per decifrare la verità e l’assoluto e portarlo al mondo».

Per Arrivabene non basta un’idea per essere artista o fare arte, quell’idea bisogna saperla “incarnare” altrimenti siamo di fronte a quel “quasi nulla” che arte non è. È la progressiva riduzione, da una parte, dell’arte a ready made, concetto, denuncia, gioco e tanto, tantissimo vuoto e, dall’altra, dell’artista a utile idiota a servizio del mercato globale. È l’esito di un lungo percorso che vede numerosi protagonisti e correnti dell’arte moderna e contemporanea esplorare le vie della decostruzione, del nichilismo, del nonsenso, della leggerezza disimpegnata e dello scandalo.

«La decostruzione, il nichilismo, oppure l’appoggiarsi all’arte del passato come fosse una stampella per reggere un’incapacità di dire qualcosa che vada oltre la “scenografia”, sono caratteristiche degli usurpatori dell’arte. Questi linguaggi sono una cancrena, un’azione di forza quasi iconoclastica, e rivelano l’artista come un ingranaggio del potere finanziario. Si depaupera il messaggio di verità e autenticità che ci porta l’arte e la pura creazione. Penso che l’artista debba osservare i testimoni e i maestri del passato con il necessario e dovuto rispetto, perché hanno saputo rivelarci quella bellezza che risponde e vibra con il nostro senso ultimo: la vera sete di bellezza è il dogma radicato nella profondità della nostra anima».

Arrivabene pensa, come Giorgio de Chirico, che la vera arte è sempre sacra, che c’è una relazione feconda e viva tra il divino che ci abita e la bellezza che siamo capaci di generare. «Ho imparato a conoscere l’arte nella dedizione e nella disciplina, attraverso gesti, studio e pratica, che mi portano sul cammino necessario ad annullare ogni aspetto inutile del mio ego. L’artista ha il compito, attraverso le sue opere e il suo lavoro, di varcare quell’orizzonte che scardina tutto ciò che è auto–esaltazione e divenire così testimone di un incontro col mistero e la grazia».