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Calcio. Napoli, la rivincita del "ciuccio", la mascotte che divide i tifosi

Antonio Giuliano domenica 30 aprile 2023

L'asinello, "o ciuccio" a Napoli, mascotte storica del club

Siamo arrivati al punto che non si può nemmeno più dire “povero asino”. Subito pensiamo a un insulto. Tanto è compromessa ormai l’immagine del bistrattato quadrupede che evoca per lo più significati sprezzanti: ignorante, zotico o caparbio senza motivo. La tradizione popolare non gli lascia scampo nel proverbio usato per inchiodare qualcuno a un giudizio negativo: «Chi nasce asino non muore cavallo». Eppure la storia calcistica del Napoli dimostra l’esatto contrario e il terzo scudetto ormai vicino è ancora una rivincita del simpatico somarello, “ o ciuccio” come viene chiamato sotto il Vesuvio. Un legame che risale alle origini della società partenopea con il “ ciucciariello” capace davvero di scalzare dallo stemma della società un poderoso destriero. Un cavallo bianco rampante, il “Corsiero del Sole”, il simbolo di Napoli durante il Regno delle Due Sicilie, era quello che figurava nel logo dell’Associazione Calcio Napoli già nel 1926, l’anno di fondazione. E prima ancora i calciatori dell’Internaples Foot-Ball Club, i pionieri del pallone nel capoluogo campano dal 1922, erano soprannominati “ i poulains”, i puledri. Il cavallo rampante era stato voluto dagli Svevi come simbolo dell’indomabilità e dell’impetuosità del popolo napoletano.

Ma la prima stagione del Napoli nel campionato nazionale (1926-1927) si rivelò disastrosa: su 18 partite, 17 sconfitte e un misero pareggio. Le cronache napoletane riferiscono che un tifoso esasperato da quei risultati si lasciò andare in un bar urlando a squarciagola tra le risate dei presenti: « Ma quale cavallo rampante?! Stà squadra nostra me pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: trentatre chiaie e ‘a coda fraceta ». Nelle leggende popolari di Napoli Fichella era un personaggio che per vivere raccoglieva fichi di notte per rivenderli di giorno. Si faceva aiutare da un vecchio asino così pieno di piaghe e di acciacchi e con la coda in cancrena che a stento riusciva a camminare. L’espressione però ebbe così successo che un asinello incerottato finì su un giornale umoristico diffuso in tutte le edicole della città. Fu così che nel 1927 la società decise di sostituire nello stemma il cavallo rampante con l’asinello. Che si rivelò presto anche un formidabile portafortuna. Nel 1930 un “ciuccio” in carne e ossa debuttò allo stadio in occasione di un Napoli-Juventus. I partenopei perdevano 0-2 ma riuscirono in una clamorosa rimonta per uno storico e insperato pareggio (2-2). Al termine della partita l’asinello con un nastro azzurro fece un giro di campo trionfale accompagnato da un cartello diceva: «Ciuccio fa tu». Ma fu un momento di gloria passeggero.

Negli anni questa mascotte fu rimossa e dimenticata. Era un’immagine che squalificava il club e addirittura qualcosa di cui vergognarsi quando nella stagione 1982/83 comparve sulla maglia del Napoli indossata quell’anno dal grande Ruud Krol. L’asinello durò solo il girone di andata prima di scomparire di nuovo negli anni di Maradona. Al contrario di chi invece ne ha sempre difeso la genesi goliardica, specchio di un popolo che con l’ironia sdrammatizza fallimenti e ferite. Un animale che riesce a superare i momenti più duri rialzandosi con orgoglio e passione proprio come la squadra di calcio. Del resto anche nella Bibbia l’asino è simbolo di umiltà e laboriosità. Non a caso fu scelto anche da Gesù per entrare a Gerusalemme. E la tradizione lo vuole presente pure nel presepe proprio dove i maestri di San Gregorio Armeno hanno già collocato Spalletti e i suoi eroi. Sacro e profano in una città in cui l’asino (almeno quello calcistico) vola per davvero. E con il tricolore presto in groppa va a prendersi il suo meritato pezzo di cielo.