Agorà

Letteratura. La poesia di Pazzi, vita senza tramonto

Massimo Onofri domenica 8 marzo 2020

Roberto Pazzi

Come recita il sottotitolo, l’ultimo libro di Roberto Pazzi, Un giorno senza sera, (La nave di Teseo, pagine 304, euro 18) è un’'antologia personale di poesia, che documenta, sino al 2019, una vicenda iniziata nel 1966, negli anni in cui, soprattutto durante le vacanze estive nella casa natale di Ameglia, ventenne già innamorato della letteratura, aveva modo di frequentare Vittorio Sereni a Bocca di Magra, situata poco più a sud sulla riva sinistra del fiume: ma si tratta d’un rapporto, precoce e duraturo, perfettamente testimoniato da Come nasce un poeta. Epistolario 1965-1982 (2018) stampato da Minerva. Per sgombrare il campo diciamo subito che in termini di ricognizione storico filologica - come si converrebbe a uno scrittore tra i nostri più importanti in attività e acclamatissimo romanziere -, questo libro andrebbe affrontato lavorando sull’eventuale evoluzione nella disposizione anche prosodica del verso e delle raccolte via via pubblicate, qui restituite nella scansione cronologica (le ultime ventisei poesie sono però inedite), prediligendo cioè il percorso dell’autore invece che il punto d’arrivo della sua scelta, non senza riferimento alla parallela e felicissima attività narrativa: come per altro fa anche Alberto Bertoni nella postfazione, Poesia come teatro della mente, il cui titolo può valere già quale plausibile formula critica.

Noi procederemo accogliendo le sollecitazioni d’un lavoro che, così com’è, si cala tutto intero nella nostra contemporaneità e, in quanto tale, la giudica e si lascia giudicare. Si può cominciare, allora, dal bel titolo che, com’è già chiaro in epigrafe, deriva dalle Confessioni di Sant’Agostino: «Ma il settimo è il giorno senza sera, il giorno senza tramonto. L’hai santificato perché durasse eternamente». Il che - considerando l’importanza che hanno sui suoi versi gli ascendenti Catullo, Orazio, Saba, Ariosto, Leopardi, Kavafis, Saba, tutti citati nella premessa, ai quali si può aggiungere almeno Penna - fa di Pazzi un poeta della gioia di vivere (non del piacere, si badi: ché il piacere, a differenza della gioia, resta del tutto incapace di inglobare il negativo dell’esistenza), il cui dramma resta, proprio a ridosso della grande meditazione agostiniana sul tempo, il tentativo impossibile d’eternare, attraverso la poesia, l’attimo fuggente e di perseguirlo con un impegno estetico e morale intransigente che ha, se si vuole, del religioso. Citiamo, in proposito, da Canzonetta (che pare la lieve eco d’una 'ballatetta' cavalcantiana), inclusa in La gravità dei corpi (1998): «Ora che t’ho tradita, / metà della mia vita, / è vero che ti ho amata, / ora che ti ho perduta». O, ancora meglio, da Versi occidentali (1976)): «Morirò a Firenze / giovedì sedici settembre alle sette e mezza./ Ho deciso. Sarà così./ Affinché il mondo si fermi alla mia fermata». E più avanti, con riferimento ai metafisici passeggeri che lo accompagnano: «Felici per questo senza sospettare / che fu solo per godermelo / il mondo che io lo feci fermare,/ che io decisi di morire / quel sedici settembre».

Come si vede - nei modi d’una poesia in cammino verso la prosa, non priva di esiti drammaturgici (poco importa se monologante o incline al dialogo) - siamo davanti a un Caproni euforico, che ha conosciuto le tentazioni di Dioniso e una certa nietzscheana esultanza, nel mentre, però, ne proclama l’odierna filosofica impossibilità, se è vero che siamo nel tempo della fuga degli dei e del Mito violato. Bertoni, giustamente, osserva che Pazzi «rifugge e in certo modo si distacca» dal rischio del «narcisismo», sempre incombente in ogni poesia radicata in un 'io' tendente all’espansione prepotente della propria personalità: rischio evitato da una continua sovrapposizione tra «tempo storico» e «tempo soggettivo». Prendete l’incipit d’una lirica come In morte di Aldo Moro tutta pervasa dallo stesso sgomento che informa il suo romanzo d’esordio, Cercando l’imperatore (1985): «Dopo che lo zar Nicola e la zarina Alessandra / furono uccisi con Alessio, Olga, Maria, Tatiana / e Anastasia, i loro cinque figli, / ci misero tre giorni a bruciarli per bene». Tempo storico e tempo soggettivo, insomma, sono strettamente interdipendenti: per un procedimento d’un poeta coltissimo, che però della cultura s’avvale anche per mettere in sordina ogni forma d’egolatria e, in tal modo, drasticamente differenziarsi, non solo per il limpido dettato, da tutti quei poeti della sua generazione, che ricalcavano, spesso confusamente, le orme dei fratelli maggiori della Neoavanguardia e s’avviavano a ripristinare, talvolta con selvaggio e scontornato candore, certi moduli neo-ermetici. Abbiamo detto cultura: per una disposizione che, in Pazzi, non ha soltanto conseguenze - mettiamola in questi termini - di semantica, ma risvolti ancora più interessanti di tipo retorico-stilistico. Torniamo a In morte di Aldo Moro e mettiamogli magari accanto una poesia inclusa in Il re, le parole (1980): «La guerra dei Troiani e dei Greci continua, / per le strade ogni giorno / si perde e si vince una battaglia, / ma l’esito finale è certo».

Non è difficile constatare come l’ombra di Kavafis si allunghi su entrambi i componimenti. Ma affermare ciò sarebbe nulla se non si aggiungesse che quella del grande poeta di Alessandria d’Egitto - secondo un discorso che vale per molti altri maestri evocati da Pazzi nelle sue liriche - agisce nel micro sistema testuale come una vera funzione e rappresenta il modo attraverso cui il poeta rimpagina il mondo nel mentre lo esperisce, sottoponendolo a nuova sintassi. Il risultato? Non certo quello che sospingerebbe Pazzi in una dimensione meramente postmoderna. Si potrebbe dire così invece: che si tratti d’un salto mortale, in quanto riconduce in direzione della vita e del suo senso ciò che parrebbe essere definitivamente rubricato sotto il cielo della letteratura.