Agorà

Il caso. La Pira, pace con i vietcong

Andrea Fagioli sabato 27 giugno 2015
La guerra in Vietnam poteva finire otto anni prima. Si sarebbero risparmiate centinaia di migliaia di vite umane, gli Stati Uniti avrebbero evitato la totale disfatta e quella striscia di terra nel Sud-est asiatico avrebbe salvato qualcosa dalla più incredibile delle piogge di bombe.Le premesse c’erano tutte. Le aveva poste Giorgio La Pira, fuori dai canali diplomatici tradizionali, con il suo viaggio ad Hanoi nel novembre 1965. Per Ho Chi Minh il "sindaco santo" era l’unica persona con la quale avrebbe accettato di «discutere di pace». I bombardamenti americani sull’Indocina in quell’anno si erano fatti più intensi e massicci. La Pira, a marzo, aveva lasciato definitivamente la carica di primo cittadino di Firenze; ma questo non gli aveva impedito di farsi promotore di una soluzione politica del conflitto che in un Vietnam diviso vedeva contrapposta la Repubblica democratica del Nord agli Stati Uniti e all’esercito sudvietnamita.In stretta collaborazione con Amintore Fanfani, allora ministro degli Esteri, e con l’appoggio dell’ambasciatore polacco Adam Wilmann e di numerosi parlamentari laburisti inglesi, La Pira portò a Firenze, nel chiuso di Forte Belvedere, parlamentari e personalità politiche inglesi, francesi, sovietiche, italiane e alcuni esponenti di organismi internazionali tra cui degli americani. Il «Symposium internazionale di studio sulla questione del Vietnam» si concluse con un appello inviato alle parti coinvolte nella guerra e ai governi garanti degli Accordi di Ginevra del 1954 sul Vietnam.All’appello rispose addirittura Ho Chi Minh, presidente della Repubblica del Nord Vietnam, con una lettera dell’11 maggio 1965, indicando i punti indispensabili per ristabilire la pace. Dopo una lunga e meticolosa preparazione e un sostanziale gradimento di tutte le parti in conflitto, La Pira decise dunque di partire per Hanoi chiedendo, come faceva di solito per queste missioni di pace, ai monasteri di clausura di accompagnarlo con la preghiera; solo che questa volta, data la delicatezza della missione, non rivelò a nessuno la meta finale. Si limitò a scrivere che sarebbe andato in pellegrinaggio a Czestochowa e da lì si sarebbe spinto «più oltre».L’avventuroso viaggio iniziò ad ottobre realmente dalla Polonia. Lì l’ex sindaco fu aiutato a procurarsi i visti per il Vietnam. Da Varsavia raggiunse Mosca. Il maltempo lo costrinse a fermarsi in Siberia in attesa di un aereo cinese che lo portasse a Pechino e da lì finalmente ad Hanoi, dove atterrò l’11 novembre per incontrare Ho Chi Minh e il primo ministro Pham Van Dong. Ad accompagnarlo c’era solo il ventiquattrenne Mario Primicerio, oggi presidente della Fondazione Giorgio La Pira.Il «professore», racconta Primicerio, partì «non sulla base di una generica aspirazione alla pace, ma dopo  un’attenta ricerca degli spiragli che si potevano aprire per una soluzione politica». Con Ho Chi Minh ci fu un «colloquio lungo e cordiale, si parlò in francese, per oltre due ore, delle difficili prospettive di pace e delle condizioni che il governo vietnamita poneva per aprire una trattativa». La Pira, dopo aver lasciato in dono a Ho Chi Minh la riproduzione di una Madonna di Giotto, tornò in Italia con una proposta di pace che consegnò ufficialmente a Fanfani, in quel momento presidente di turno dell’Assemblea generale dell’Onu.L’iniziativa, nella quale il Vietnam del Nord si dichiarava pronto al negoziato anche senza il previo ritiro americano, fallì per alcune anticipazioni apparse su un giornale statunitense. La notizia passò come richiesta di armistizio da parte vietnamita, mentre la condizione era proprio che non sembrasse una resa. «Era ciò che non doveva assolutamente essere pubblicato per non far saltare il negoziato – conferma Primicerio –. Quella fuga di notizie provocò l’immediata chiusura del dialogo da parte di Hanoi». La pace fu raggiunta 8 anni più tardi, nel 1973, alle stesse condizioni offerte dalla missione di La Pira, ma al prezzo di immense devastazioni e di un numero mai precisato di morti.Sui responsabili della fuga di notizie non ci sono documenti, ma l’ipotesi più che fondata, come spiega Elisa Giunipero, docente di Storia della Cina contemporanea e direttrice dell’Istituto Confucio dell’Università Cattolica, è che siano stati gli stessi americani per far saltare la possibilità di un accordo. Per quanto riguarda invece il Vaticano, «è documentato che La Pira teneva informata la Santa Sede. Le posizioni di Paolo VI sono strettamente legate a queste vicende. Lo stesso interesse del "professore" per il Paese asiatico nasceva anche dall’attenzione alle sorti della Chiesa cattolica e in generale delle comunità religiose vietnamite. Il desiderio del Papa di coinvolgersi attivamente in una mediazione imparziale tra i belligeranti, la mobilitazione del mondo cattolico italiano e la questione del cattolicesimo vietnamita – conclude Giunipero, autrice anche di un saggio sul Contributo italiano alla pace in Vietnam – ebbero diversi punti di contatto con gli sforzi diplomatici dell’Italia». Non solo quelli di La Pira, ma anche i successivi di Fanfani che a La Pira si ispiravano.